IL FICCANASO – Il sogno e la realtà: la triste storia di Joachim Fernandez | Il senegalese era sbarcato in Europa con grandi prospettive come calciatore: è morto, a 43 anni, vivendo da clochard

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C’erano Zidane, Dugarry e Lizarazu… Per chi ama il calcio, nomi conosciutissimi. Campioni del mondo, eroi di generazioni, simboli di successo oltre la loro Francia. Hanno smesso da un pezzo, e ognuno hatracciato una vita nuova, il pallone e i suoi sogni sempre sullo sfondo: Zidane allena il Real Madrid, Dugarry fa l’opinionista in tv…C’erano Zidane, Dugarry e Lizarazu…

E poi c’era Joachim Fernandez (foto). Giocava con loro nel Bordeaux, intrecciava qualità e grinta, era arrivato dal Sene gal per conquistare l’Eldorado che trasforma un gioco in successo. L’ha annusato soltanto, indossando anche la maglia dell’Udinese, quella di Alberto Zaccheroni che raggiunse il terzo posto in serie A, poi passò al Monza, sfiorò il grande Milan che anni prima aveva battuto in coppa “Uefa”, tornò in Francia per giocare nel Tolosa, finì Scozia e infine in Indonesia. Non aveva afferrato il sogno, ma campava comunque di calcio e magari si divertiva ancora come in Africa, da bambino, finché un infortunio lo costrinse a dire basta.

 

Di lui si persero le tracce, sono rimasti solo ricordi vaghi, figurine sbiadite. E una foto che lo ritrae sul campo, un passo davanti a Zidane. Fino a qualche settimana fa quando alcuni “clochard”, in un “hangar” abbandonato a 20 chilometri da Parigi, si sono accorti, al risveglio d’un altro giorno uguale e duro, che uno di loro non si muoveva più sotto le vecchie coperte. Hanno dato l’allarme, ma non c’era nulla da fare, quell’uomo era morto a 43 anni, schiacciato da troppe sofferenze. Quell’uomo era Joachim, che da ragazzo aveva giocato con Zidane e aveva realiz-zato il sogno d’ogni bambino, quello di debuttare nel calcio che conta: uno spezzone solo in A, va bene, ma d’altronde era giovane e il tempo, se avesse avuto più fortuna, non sarebbe mancato, vestito di bianconero contro la Fiorentina di Batistuta, Toldo e Rui Costa, altri grandi nomi per chi ama il pallone.

 

Nessuno sapeva, però, del suo passato. Né i “clochard” che dividevano con lui, dopo il girovagare lento del giorno, quei muri freddi e scrostati, né la gente del mercato di Domont, dov’era apparso da qualche anno e dove tutti gli volevano bene, dove raccattava qualche lavoruccio e qualche spicciolo, dove rifletteva sui sogni in frantumi d’una vita o, forse, aveva imparato a dimenticare, dove sperimentava la povertà dopo aver bazzicato un mondo luccicante di ricchezza. I problemi del calcio erano comunque sfondo, c’erano, si scopre adesso, quelli più seri di famiglia: una separazione burrascosa e un figlio che non vedeva mai di vent’anni, l’età che aveva lui quando arrivò al Bordeaux dal Senegal, e tutti erano certi che sarebbe diventato un campione. Non c’è riuscito, ha racimolato illusioni e delusioni, ha conosciuto la depressione, ha provato forse a ricominciare, tra le sue poche cose c’era un patentino di allenatore, ma non ha avuto il tempo.

 

E così è rimasto solo, senza dimora, con una storia che non raccontava a nessuno e che solo la morte, in un “hangar” abbandonato, ha rispolverato. Pochi giorni fa, dentro una cassa di legno chiaro, è tornato per sempre in Senegal, da dove era partito per inseguire un sogno..

 

Antonio Barillà