Se è vero che ci si avvicina a Facebook soprattutto per ritrovare chi ha condiviso con noi gli anni della scuola, Mark Zuckerberg può rallegrarsi del fatto che persone come Federico Forneris siano rare.
Per i compagni delle elementari e delle medie a Cervere o per gli aspiranti ragionieri di Fossano della seconda metà degli anni ’90, infatti, non occorre alcuna iscrizione al “social” più frequentato al mondo: basta dare un’occhiata ai mezzi d’informazione negli ultimi giorni per scoprire che il vicino di banco è diventato un brillante chimico e che il “team” da lui guidato ha appena compiuto una scoperta che potrà avere importanti implicazioni anche nel campo della cura del cancro.
Il biologo strutturale, ora residente a Pavia, con entrambi i genitori in Granda, dove ha trascorso i primi vent’anni della sua vita, e una fidanzata (anch’ella ricercatrice) a Grenoble, ha il merito non solo di aver fatto compiere un passo in avanti alla ricerca, ma anche di saper usare l’intelligenza e l’umiltà necessarie per relazionarsi con chi nulla sa di chimica e dintorni.
Ecco come Federico Forneris rende comprensibile lo studio, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature communications”, a cui il suo gruppo ha iniziato a lavorare nel 2011 e che negli ultimi due anni è stato un autentico “chiodo fisso”.
«Il collagene è una delle proteine più abbondanti che abbiamo; si conosce da tantissimo tempo, ma è piuttosto difficile da studiare, perché subisce tante modificazioni. Noi siamo partiti occupandoci delle proteine che consentono al collagene di diventare così com’è. Studiando quali fossero i meccanismi che causano una malattia genetica rara, ci siamo accorti che la proteina LH3 è un po’ l’elemento chiave e il suo malfunzionamento è coinvolto anche in altre malattie più o meno gravi e diffuse ed è legato alla riproduzione delle metastasi. Andando a studiare i lavori di chi si è occupato prima della LH3, abbiamo riscontrato che questa proteina era difficile da studiare perché risultava pressoché impossibile ottenerne la struttura tridimensionale. Abbiamo provato a farlo con i metodi classici e abbiamo fallito, così ci siamo inventati un metodo nostro e ci siamo riusciti. Nel momento in cui abbiamo ottenuto dati preliminari che ci sembravano buoni ci siamo rivolti all’Associazione italiana per la ricerca sul cancro che, attraverso il suo programma di finanziamento, ha messo a disposizione fondi per fare questo tipo di ricerca: l’attività dei prossimi anni sarà rivolta a studiare come intervenire per bloccare il processo».
Quindi non è fuori luogo parlare di passo in avanti nella lotta al cancro…
«Noi si fa tutto quello che si può, ma, garantire che un giorno avremo un farmaco grazie a quello che facciamo ora, significa forzare la mano. Dire che ci svegliamo ogni giorno e andiamo a dormire ogni sera con quello in testa, invece, è assolutamente corretto».
Essere riusciti a fotografare questa proteina è frutto più che altro di cosa?
«Perseveranza. Anche se sarebbe ipocrita dire che non si è fortunati quando si ottengono
risultati così, perché effettuare l’esperimento giusto nel momento giusto richiede anche una certa dose di buona sorte. Serve anche la squadra giusta e ho avuto la fortuna di contare su ragazzi che hanno deciso di investire il proprio tempo per risolvere tutti i problemi incontrati fino ad arrivare a questo risultato».
Come si riesce a resistere a settimane, quando non mesi o anni, di “niente di fatto”?
«Alle persone che vengono a fare i colloqui da noi dico sempre: “Guarda che questo laboratorio, come tutti i laboratori di questo genere, selezionano le persone in base al loro livello di ottimismo, perché se non sei ottimista e non reagisci bene al fallimento, non ne esci vivo”. Questo mestiere è fatto di 300 giorni di cose che non vanno per arrivare poi, forse, a quel giorno in cui si sblocca tutto».