Il 14 e il 16 maggio su Rai4 e sabato 18 su Rai1 in diretta da Tel Aviv la sessantaquattresima edizione del concorso (con Mahmood per l’Italia)
Venti di guerra permettendo, considerando ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza, Tel Aviv si accinge a ospitare la sessantaquattresima edizione dell’“Eurovision song contest”. Le tre serate in cui si articolerà lo spettacolo canoro più sontuoso, tecnologico e atteso al mondo, che ogni anno fa “record” di ascolti non solo nel vecchio continente, specie al nord e all’est, ma anche in Australia (non per nulla anche il Paese agli antipodi è in gara dal 2015), saranno trasmette dalla tv pubblica: su Rai4 martedì 14 e giovedì 16 maggio, e su Rai1 sabato 18, in questo caso con il commento di Flavio Insinna, affiancato da Federico Russo. Se si può dare un consiglio spassionato alla luce delle esperienze degli anni scorsi, i telespettatori italiani delle tre serate farebbero meglio a optare per l’audio originale, cosa possibile su quasi tutti i moderni televisori, per evitare di incappare in interventi imbarazzanti e soprattutto inopportuni, comunque spesso disturbanti.
A sventolare il tricolore sarà Mahmood, con “Soldi”: il cantante e il brano vincitori di Sanremo sono, per regolamento, gli alfieri del nostro Paese in quello che sino a pochi anni fa si chiamava “Eurofestival” e che oggi, a favor di “hashtag”, in troppi denominano con il tristissimo, insipido acronimo “Esc”.
Come scriverebbe la “Settimana enigmistica”, forse non tutti sanno che il concorso internazionale nacque su ispirazione proprio del Festival della città dei fiori: fu il dirigente della Rai Sergio Pugliese a suggerire all’Ebu (in italiano: Uer-Unione europea di radiodiffusione) la creazione di una manifestazione musicale che abbracciasse tutti i Paesi del vecchio continente.
L’Italia, dunque, è fra i padri nobili dell’“Eurovision song contest”, ma solo due volte ha gustato il sapore della vittoria: nel 1964 trionfò una Gigliola Cinquetti poco più che bambina con “Non ho l’età” e nel 1990 si impose l’immarcescibile Toto Cutugno con “Insieme: 1992”. Ma il nostro Paese si è comportato pure da cattivo patrigno dell’evento, giacché, per motivi risibili, beccandosi pure i rimbrotti dell’Uer, non prese parte alle edizioni del 1981, del 1982, del 1986, a quelle dal 1994 al 1996 e dal 1998 al 2010, in quegli ultimi anni costringendo gli appassionati a saltellare da un satellite all’altro per non perdere l’emozione dello spettacolo.
I dirigenti della Rai rinsavirono nel 2011, posizionando la finale prima su Rai2 e in seguito sulla rete ammiraglia, e da allora l’Italia non è più mancata. Malgrado la scarsa attenzione verso quello che dovrebbe considerare un proprio figlio televisivo, il nostro Paese fa parte dei “big five” ammessi con lo Stato ospitante direttamente alla finalissima, quindi non a rischio di eliminazione in semifinale: con noi, gli altri “eletti” sono Regno Unito, Spagna, Francia e Germania.
Occorre dire che, purtroppo, lo spirito originario dell’“Eurofestival” si è molto corrotto: da un lato si è assistito a un terrificante appiattimento culturale, per cui a sonorità e lingue originali si sono sostituiti, per gran parte dei concorrenti, le melodie che “fanno mercato” e l’inglese (ci è cascata pure la Francia, il che è tutto dire), mentre d’altro canto la politica e il politicamente corretto ormai dominano, come dimostrano gran parte dei vincitori più recenti. Ah, ultima chicca: l’Ucraina si è ritirata perché la cantante che aveva acquisito il diritto a partecipare si è rifiutata di firmare l’impegno a non tenere concerti in Russia. Quando si dice l’arte che unisce i popoli.