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1963: la tragedia del Vajont vissuta dalle penne nere

Il generale Giorgio Blais, con la sua Compagnia, di stanza a Belluno, fu fra i primi soccorritori giunti nottetempo sul luogo di quell’immane disastro

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La sera del 9 ottobre 1963 la 79a Compa­gnia alpini del battaglione “Belluno” era impegnata in un addestramento notturno. La temperatura era bassa, spirava una fresca aria
au­tunnale, la notte era serena.
Alla fine dell’esercitazione, do­po le parole di compiacimento del Comandante della Brigata che era presente, la Compagnia rientrava in sede, la caserma “Salsa” di Belluno. Erano circa le 23. Gli automezzi, giunti nel cortile della caserma, si erano fermati, le sponde dei mezzi erano state abbassate, l’ordine di scendere era già stato dato.
In quel momento, dopo qualche convulsa telefonata, suonava l’allarme. La voce si rincorreva incredula: «è crollata la di­ga». Gli alpini della 79a Com­pagnia furono i primi a giungere a Longarone fra le truppe provenienti dal basso, cioè da Belluno. Al momento dell’allarme erano già in completo assetto: il tempo di deporre le armi, ritirare gli attrezzi che si ritenevano indispensabili e risalire su­gli automezzi. Fino a Ponte nelle Alpi il movimento fu regolare; ma lì, in corrispondenza del bivio che porta verso nord, risalendo il corso del Piave, re­gnava una grande confusione.
Non si sapeva se procedere o no, le notizie esatte mancavano. Dalle acque gonfie del Piave tronchi e cadaveri venivano sbattuti e trascinati vicino alla strada. Si ignorava l’esatta entità del disastro. Si diceva che la diga era crollata, alcune voci asserivano che la parte bassa di Longarone era stata spazzata via, altre meno pessimistiche par­lavano di danni solo alla Car­tiera e a Rivalta.
Si pensava che la ferrovia, dislocata a una quota superiore a quel­la della strada, sull’altro ver­sante della valle rispetto al ba­cino, fosse rimasta intatta.
Altri ancora consigliavano di non avventurarsi, perché si i­gno­rava se la tragedia si fosse compiuta oppure se altri pericoli so­vrastassero.
Nel buio, nella confusione, nel­l’ansia, nello sgomento di quegli istanti, la coraggiosa decisione del Comandate della Brigata fu decisivo. Venne dato l’ordine di proseguire. Gli automezzi ri­presero la strada verso nord, fino a dov’era possibile proseguire. Alla stazione di Faè-For­togna gli alpini scesero silenziosamente, caricarono sulle spalle le pale e i picconi che avevano con sé e si incamminarono: gli ufficiali e i graduati accesero le loro lampadine. Nessuno fiatava. In un allucinante silenzio si avanzava in mezzo al fango.
Alcuni civili accompagnavano gli alpini del battaglione “Bel­luno” e gli artiglieri da montagna del gruppo “Lanzo”, i reparti di stanza a Belluno.
Si avanzava, si avanzava sempre fin dove si intuiva essere stata la strada; a un certo punto più nulla. Il terreno era sconvolto, acque mugghianti davanti e di fianco, una fila di lumini e di ombre nel buio tetro, un grande smarrimento in tutti.
Lasciarono la strada, si inerpicarono sui fianchi della montagna, raggiunsero un ponte su cui passava la ferrovia, con le rotaie penzolanti nel vuoto, come due rami secchi.
Un gruppo di coraggiosi, operai della “Faesite”, che si erano avventurati ancor prima verso Longarone, stavano scendendo. Dissero al Comandante della Compagnia: «è inutile andare avanti, a Longarone non c’è niente». Quel Capitano per un momento si illuse: preferì capire che a Longarone non era successo niente. Ma guardò in faccia quegli uomini e li vide piangere. L’unico punto di riferimento era la chiesa di Lon­ga­rone, dove i tre gradini che portavano all’altare erano rimasti l’unico luogo identificabile.
At­torno vi erano soltanto detriti e ma­cerie, sminuzzati e livellati, co­me una spiaggia arida e uniforme.
Il primo posto comando per la condotta delle operazioni fu costituito su quei gradini. Il battaglione “Cadore”, giunto verso mezzanotte, stava già rastrellando la parte nord del paese e alle cinque compagnie del “Bel­luno”, la Comando, la 77a, la 78a, la 79a e la Mortai, vennero assegnati i settori per la ricerca di eventuali sopravvissuti.
Gli alpini, consci del disastro, inebetiti dallo spettacolo, trovarono in sé la forza di riprendersi e riorganizzarsi. Si formarono lunghe catene umane che scandagliavano passo passo il terreno alla ricerca di qualcuno o di qualcosa che non potevano, purtroppo, più trovare. Nessun ferito, qualche corpo affiorante privo di vita, qualche oggetto.
Dov’erano i mille e mille abitanti di Longarone? Si stava camminando sopra un enorme cimitero, nessuno sentiva la stanchezza, le lacrime bagnavano il volto di quei ragazzi senza che nessuno se ne vergognasse.
A volte qualcuno si fermava di colpo e attorno a lui i compagni si chinavano illuminando la macabra scena e davano mano ai picconi e agli attrezzi.
Il penoso lavoro durava a volte qualche minuto, a volte un’ora; poi il corpo veniva adagiato su una barella oppure qualche pezzo di legno trovato e adattato per il trasporto.
Alcune ambulanze erano già affluite provenienti da Cortina e da Pieve di Cadore.
Ogni ambulanza caricava salme fino al limite per andare a deporre il triste fardello in qualche cimitero dei paesini del Ca­dore o dell’Ampezzano.