Mauro Barberis di Monticello d’Alba ha portato a compimento il viaggio che sognava, correndo e camminando sino all’Everest
Sul numero di “IDEA” del 21 marzo avevamo promesso di intervistare il podista monticellese Mauro Barberis al ritorno dal suo viaggio in Nepal, pubblicando immagini di questa avventura. Ora adempiamo all’impegno preso con i lettori.
Bentornato, “Barba”! Sei soddisfatto di quest’ultima impresa?
«Certo! Oltre alla soddisfazione di aver chiuso in positivo la sfida, porterò per sempre nei ricordi immagini di panorami indimenticabili e la cortesia e l’ospitalità di tutti i nepalesi che ho incontrato durante il tragitto».
A proposito del viaggio: puoi darci qualche numero?
«Ho percorso a piedi 1.025,2 chilometri di cui oltre 200 di corsa. Il dislivello complessivo superato è stato di oltre 40.000 metri. Le tappe sono state quaranta e le ore di cammino 255. Ho consumato un paio di scarpe da “trekking.” In questi quaranta giorni ho consumato più di 700 litri d’’acqua che filtravo ogni mattina prima di mettermi in cammino. Ho consumato 100 barrette energetiche. Il mio zaino pesava 7 chili all’inizio poi, a circa metà tragitto, è sceso a 6 chili e mezzo perché ho rinunciato al sacco a pelo».
E perché hai rinunciato a una simile “comodità”?
«Perché gli abitanti dei villaggi che attraversavo mi hanno sempre ospitato. Non solo: mi facevano anche mangiare con loro e mi offrivano dell’ottimo the. Non volevano essere ricompensati e dovevo insistere per far loro accettare del denaro. L’equivalente di un paio di euro per loro è una cifra quasi astronomica».
Hai avuto qualche difficoltà con la lingua?
«No. Tutti, tranne le persone più anziane, capiscono l’inglese e lo parlano».
In diverse fotografie sei circondato da bambini…
«Solo i piccoli delle famiglie più ricche vanno a scuola. Gli altri stanno nel villaggio a giocare o a lavorare. Per cui sovente gruppi di bambini mi accompagnavano per qualche chilometro. Per loro percorrere a piedi grandi distanze è naturale. Pensa che per andare a scuola, tra andata e ritorno, percorrono a piedi oltre 10 chilometri. Anche per andare da un villaggio all’altro si superano grandi distanze».
Quindi durante i tuoi trasferimenti avevi compagnia.
«Quasi sempre ho viaggiato con dei compagni. Bambini, abitanti locali o turisti che, come me, attraversavano il Nepal».
Arrivato a Kathmandu, sei subito partito per il tuo “tour”?
«No. Mi sono fermato nella capitale nepalese per quattro giorni, un po’ per ambientarmi e molto per ottenere i visti e permessi necessari. Che sono molti! Ovviamente ne ho approfittato anche per visitare la città».
È filato tutto liscio?
«Figurati! Sarebbe stato troppo bello! Nell’ottava tappa scopro che il Jang La Pass (4.519 metri d’altitudine), non utilizzato dai locali, ma solo dai turisti, è impraticabile per la neve. Per fortuna lì vicino c’è un piccolo aeroporto e, grazie all’aiuto del “National trust for nature conservation”, sono riuscito a imbarcami per Nepalganj e di lì proseguire per Muna con uno sgangheratissimo bus: 24 ore di viaggio tra aereo e bus. Il secondo intoppo giunge, manco a farlo apposta, alla tappa 17. Parto di buon’ora e mi accorgo subito che, ed è curioso, non ci sono altri viandanti. Ben presto scopro che la segnaletica manca del tutto. Risultato? Mi sono perso nella foresta. Non solo: a mettere la ciliegina sulla torta arriva un forte temporale con tanto di grandine! Terminato il diluvio, riprendo il cammino guidato dal rumore delle acque di un fiume ma vengo bloccato da un profondo dirupo. A questo punto mi preparo a passare la notte all’addiaccio. All’improvviso sento delle grida e mi avvio verso la direzione dalla quale provengono. La fortuna mi ritorna amica e trovo un anziano molto gentile che mi conduce al suo villaggio e mi trova ospitalità presso la famiglia di un amico. Per il resto, tutto ok. Se non consideriamo i soliti intoppi per mancanza di segnaletica».
Quali sono stati i momenti più belli di questa esperienza?
«La tappa che mi ha portato al Phoksundo Lake, un lago stupendo a 3.600 metri di quota con una profondità di circa 600 metri, contornato da un paesaggio stupendo. Poi tutte le tappe che da Jiri portano all’Everest, ricche di viste mozzafiato. A proposito dell’Everest: quando l’ho visto per la prima volta, il trentottesimo giorno di viaggio, ho pianto di gioia e di commozione. Ma il punto più bello in assoluto è la cima di Kala Patthar, a 5.550 metri sul livello del mare, sopra il campo base dell’Everest».