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“Raccontare troppo” è un “noir” atipico

Teresio Asola ha dato alle stampe il nuovo “romanzo di strada” imperniato sul viaggio

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Sei romanzi, sei punti di vista sul mondo e sul­l’uomo, sei percorsi al­la scoperta di tempi e luoghi nuovi, a caccia di un sen­so più profondo o semplicemente di sé stessi: Teresio Asola, a nove anni dall’esordio di “Vole­vo l’Africa”, vanta un percorso letterario ricco e sfaccettato, in cui sovente la Storia con la “S” maiuscola si mescola a vicende a noi familiari, rispecchiandovisi.
La sua ultima fatica, “Raccontare troppo” (“Pav edizioni”), esce a pochi mesi da “Spegnere il buio” e continua la strada del romanzo di viaggio: una famiglia come tante si reca in vacanza in In­ghilterra, fra meraviglie turistiche, battibecchi fraterni e scoperte esistenziali. La storia, poco alla volta, muta registro e finisce per intrecciarsi alle vicende di un omicidio e ai misteri a esso legati.
È un “noir” atipico, che non per­de la freschezza del racconto “on the road” e sa ammaliare con la sua trama ricca di svolte.
Per comprendere la genesi dell’opera e le sue caratteristiche, abbiamo intervistato l’autore.
Partiamo da “Raccontare troppo”, il suo ultimo lavoro. È un “romanzo su strada”, ma c’è dell’altro; a partire dal prologo, qualcosa di misterioso si muove fra le pagine del libro…
«Ho incominciato a scrivere “Raccontare troppo” narrando il viaggio di una famigliola con tre figli. Un viaggio normale eppure straordinario, perché in auto dal Piemonte al Devon con bambini e ragazzi nel pieno del loro scoprire fanciullesco o adolescenziale. Poi, addentrandomi nel racconto, mi sono lasciato prendere dalla magia, dalle storie e dai
mi­steri dei luoghi attraversati dai protagonisti tra leggende, venti di brughiere accarezzate dal sole d’agosto e paesi così strani da terminare con un punto esclamativo (“Westward Ho!”). Esortato dai tanti punti esclamativi di quei luoghi, ho così introdotto l’intreccio di un giallo che, correndo parallelo alle sorprese allegre del viaggio, si snoda leggero, sullo sfondo, tra un “cottage” sul mare dell’Inghilterra meridionale e una libreria antiquaria nel centro di Londra».
È impossibile non notare che l’auto con cui viaggia la famiglia ha un nome, “Pequod”, lo stesso della baleniera del ro­manzo di Melville “Moby Dick”.
«Grazie per aver colto questo aspetto. Il nome dato all’auto non è casuale. Del resto, che bisogno ci sarebbe stato di affibbiare un nome a un’auto, se non per non dargli un senso “altro”, magari letterario? Ebbene, co­me il protagonista di “Moby Dick” si mette in mare con l’intenzione “di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione”, così i viaggiatori di “Raccontare troppo” partono sulla loro “Pe­quod” per tarare la propria “routine” di vita, alla ricerca del nuo­vo: esperienze, emozioni, paesaggi, persone, futuro. Ogni viaggio, per banale che sia, se fatto con il cuore e con gli occhi curiosi di un bambino, porta in sé il germe dell’epopea e del romanzo. Per converso, il libro che lo narra diventa viaggio: chi, nell’atto di leggere o scrivere, non si è sentito in viaggio? E il libro non è forse il più formidabile mezzo di trasporto? Di certo il nome dato all’auto è un omaggio a Herman Melville e al protagonista della sua opera più nota. Con lo stesso spirito avevo dato il nome I­smaele a un altro uomo in viaggio (o in fuga), protagonista del romanzo distopico “Mùnscià”».
A un tratto la vicenda si immerge in un’atmosfera più misteriosa. Compaiono una lettera e un vecchio diario e le cose cambiano all’improvviso…
«Il protagonista apprende dalle cronache della morte di una certa Debenham, che al suo arrivo nel “cottage” di Appledore gli aveva raccontato una storia di me­tà Ottocento riferibile ai MacAuslin, cognome troppo piemontese (letteralmente, “solo uccellini”) per essere vero. Il cadavere della donna stringe un foglietto insanguinato: “Ho raccontato troppo”. Da quel mo­mento la semplice vacanza inglese si tinge di un giallo sfumato, in cui entrano anche l’antico diario di un carpentiere navale e la lettera di un contadino di Langa, trovati in una vecchia libreria di una Londra sconvolta dal terrorismo. Inoltre, al ritorno in Italia dei protagonisti, in una piola langarola compaiono i due discendenti americani del contadino e del carpentiere. Il manoscritto, la lettera, il racconto, racchiudono e preservano frammenti di me­moria. Scrivere significa conservare e testimoniare, e leggere prenderne atto: gesto fondamentale, persino per contribuire a risolvere un caso giudiziario in apparenza senza sbocco».
La vicenda si svolge nel 2005, pochi giorni dopo gli attentati di Londra. Perché questa scelta?
«Forse per caso, visto che proprio quell’estate (proprio con moglie e tre figli) salii in Inghilterra in auto per una vacanza. E poi perché il viaggio deve servire anche a vivere, esorcizzando le paure. Quale migliore risposta al terrore che andare là dove esso si manifesta, salpare, cercare e magari trovare, la balena bianca?».
Dopo le memorie di guerra di “Volevo vedere l’Africa”, l’avventura di “All’orizzonte cantano le cascate”, il “boom” economico de “L’alba dei miracoli”, il pessimismo di “Mùnscià” e il viaggio di “Spegnere il buio”, lei continua a farci scoprire il mon­do, quasi che la sua scrittura sia uno strumento di esplorazione. Noto anche una tendenza a passare dal ricordo all’attualità, dal passato al presente. Co­me definirebbe questa fase della sua produzione?
«Fatico sempre a incasellare i miei libri in un genere o trovare per loro delle definizioni. Non amo dare etichette ai miei ro­manzi. Ad esempio in questo caso l’editore ha voluto inserire il volume nella collana “noir”, ma non sono per nulla sicuro che “Raccontare troppo” sia un “noir” a tutti gli effetti. Anzi, quasi certamente non lo è. Di sicuro per me il libro è viaggio, come detto, e in quanto tale avventura ed esplorazione, indipendentemente dal periodo storico e dal contesto geografico in cui si collocano le sue vicende. È vero, mi piace profumare di memoria l’attuale e viceversa. Forse perché, tipico del viaggiatore o di chi aspira a esserlo, non amo rimanere troppo nel medesimo tempo e luogo. Il ricordo aiuta a costruire sogni, utili a vivere meglio il presente».
È già al lavoro su qualcos’altro?
«Certamente. Lavoro sempre a più di un progetto in contemporanea. Ora ho almeno tre opere pronte, in attesa di un editore. E a inizio 2020 uscirà il mio settimo romanzo, che potrei definire molto “albese”. Perché? Perché molti albesi ritroveranno qualcosa di loro stessi, com’è successo con “L’alba dei miracoli”. Am­bientato sul finire degli anni Settanta in una cittadina dinamica quanto la vicina Alba, racconta il ritrovarsi di due vecchi a­mici che dopo quarant’anni ripercorrono (un viaggio, ancora) alcuni momenti dei loro anni da liceali tra il Piemonte, l’Inghilterra e i primi amori. L’ho dedicato agli adolescenti, a chi vorrebbe tornare a esserlo, a chi ritrova un amico, a chi si è innamorato, a chi ha fatto autostop e ai maturandi di sempre. Spero che la lettura possa emozionare tanto quanto è successo a me durante la scrittura».