Il 14 marzo 1861 la Camera dei deputati approvò all’unanimità la legge presentata da Camillo Cavour: «Il re Vittorio Emanuele II assume per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia».
Con la sua pubblicazione nella “Gazzetta ufficiale” il 17 marzo nacque il Regno d’Italia, il cui vero genetliaco rimane il 14.
La data non era casuale.
Re Vittorio era nato a Torino il 14 marzo 1820, primogenito di Carlo Alberto di Savoia, principe di Carignano, e di Maria Teresa d’Asburgo-Lorena.
Il 13 marzo 1861 il generale Enrico Cialdini comunicò la resa di Messina. Gaeta era caduta un mese prima.
Francesco II di Borbone e la consorte Maria Sofia di Wittelsbach erano partiti alla volta dello Stato pontificio su un vascello francese.
Civitella del Tronto si sarebbe arresa il 20 seguente.
Il 17 aprile la Camera deliberò che negli atti il nome del Re fosse seguito dalla formula “per grazia di Dio e per volontà della Nazione”. Tradizione: legittimità e volontà popolare.
Così fu coronato il Risorgimento d’Italia.
Il 27 marzo, quasi all’unanimità il Parlamento approvò il “voto” proposto da Carlo
Bon-Compagni di Mombello su sollecitazione di Cavour: «Roma, capitale acclamata dall’opinione nazionale, sia congiunta all’Italia».
Re e Nazione. Sovrano, Governo e Parlamento (il Senato di nomina regia e vitalizio, la Camera elettiva) formavano la catena di unione evocata da Cavour il 14 marzo: «Tutti
abbiamo diversamente lavorato per la medesima causa (…); di qui parta unanime adunque quel grido di entusiasmo, qui finalmente l’aspettata fra le nazioni si levi e dica “Io sono l’Italia!”». Cavour non amava la retorica. Stava ai fatti. Fra i deputati vi erano Giuseppe
Garibaldi, tanti patrioti già seguaci di Giuseppe Mazzini, alcuni federalisti: la “concordia
discors” dalla quale la Patria aveva assunto forma di Stato e prendeva il suo corso.
Dal Piemonte, l’Italia
Perché la centralità del Re?
Nell’età franco-napoleonica (1798-1814) il “Piemonte” era stato annesso alla Francia.
Dopo otto secoli di storia gloriosa aveva cessato di esistere.
Come lingua ufficiale gli fu imposto il francese.
Dopo la Restaurazione avviata nel 1814, aveva ripreso la via delle libertà proprio con Carlo Alberto di Savoia-Carignano che, nel marzo 1821, promulgò “pro tempore” la costituzione spagnola con la riserva del rispetto dei culti ammessi (israeliti e valdesi).
Dopo lunghe traversie e la sconfitta nell’impari guerra contro l’impero d’Austria, l’abdicazione e l’amaro esilio di Carlo Alberto (1848-1849), il Regno di Sardegna fu l’unico in Italia a conservare lo Statuto che aveva introdotto la monarchia rappresentativa, l’elettività alle cariche locali e dichiarava i cittadini uguali dinnanzi alle leggi. Non per caso esso divenne rifugio di esuli politici da tutta Italia, con i loro propositi, spesso fuori misura, come Carlo Pisacane, ferocemente antisabaudo.
Il Regno di Sardegna propiziò la nascita di una dirigenza politico-amministrativa vastissima e varò la modernizzazione in ogni settore della vita pubblica e privata. Con l’onerosa partecipazione all’alleanza anglo-franco-turca all’impero di Russia (1854-1855) e al congresso di Parigi (1856) entrò nel grande gioco delle potenze europee.
Asceso al trono a 29 anni mentre il “Piemonte” era in condizioni disperate,
Vittorio Emanuele II si mostrò politico lungimirante.
Incoraggiò, accettò e a volte subì le pulsioni della Camera e di suoi litigiosi capifila.
Guadagnò la simpatia della Gran Bretagna e l’alleanza con la Francia di Napoleone III, suggellata dalle nozze di sua figlia, la sedicenne Clotilde, con Napoleone Gerolamo Bonaparte.
Ebbe chiaro che il Regno di Sardegna non poteva “fare da sé”.
Alleato con Parigi, nel 1859 ottenne la Lombardia, mentre i liberali suscitavano insorgenze nei Ducati padani e nelle Legazioni pontificie e inducevano il Granduca di Toscana (un
Asburgo-Lorena) a lasciare Firenze. Le richieste di annessione furono ratificate da plebisciti.
Nel settembre 1860, mentre Garibaldi, vittorioso in Sicilia, già era arrivato a Napoli, re
Vittorio ebbe “via libera” da Napoleone III («Fate, ma fate in fretta»): invase Umbria e Marche per proteggervi i liberali dalle vessazioni dei papalini e proseguì nel Regno delle Due Sicilie, ove in ottobre si congiunse con il Generale, vittorioso a Calatafimi, Palermo e Milazzo, al Volturno: valoroso condottiero assai più che politico avveduto.
Se n’ebbe conferma nel 1862 e nel 1867 quando Giuseppe Garibaldi capeggiò due “spedizioni” sconsiderate e sfortunate.
Altri plebisciti confermarono il Re costituzionale.
In diciotto mesi prese corpo il sogno di generazioni di patrioti: fare l’Italia. Il difficile venne dopo, sia per gli ostacoli interni, a cominciare dal “grande brigantaggio”, alimentato dall’estero e dal clero, sia per l’enorme divario tra i popoli e le terre d’Italia. Anzitutto occorreva ottenere il riconoscimento dello Stato nella comunità internazionale.
Ci vollero sette anni ad averlo.
Riconosciuto nel 1861 da Gran Bretagna, Grecia, Svizzera e Stati Uniti, dalla Francia solo dopo la morte di Cavour, nel 1862 da Russia e Prussia e poi da Spagna e altri, nel 1867 il Regno d’Italia sedette per la prima volta in una conferenza diplomatica europea con la presenza dell’Austria a cui, grazie all’alleanza con la Prussia e alla mediazione di Napoleone III, nel 1866 aveva sottratto Mantova e Venezia.
L’Italia dalla scomunica (Beato Pio IX)
al riconoscimento
(San Paolo VI)
Scomunicato dal 26 marzo 1860, dopo esitazioni e tentativi di persuadere Pio IX a risolvere pacificamente la “questione romana”, nel settembre del 1870 il cattolicissimo Re Vittorio II ordinò la spedizione che agli ordini di Raffaele Cadorna irruppe in Roma.
Tra il 1861 e il 9 gennaio del 1878, quando morì, il Sovrano vide susseguirsi quindici diversi governi. Assisté alle logoranti diatribe tra maggiorenti e fazioni parlamentari.
Sulla fine del 1877, osservò sconsolato: «Non sono ancora vecchio, e già mi trovo a essere il decano dei patrioti e degli uomini politici del mio Paese».
Da oltre un anno aveva nominato presidente del Consiglio Agostino Depretis, esponente della sinistra storica, già più volte ministro.
Nel 1878 l’irpino Francesco De Sanctis tornò ministro della pubblica istruzione, come già con Cavour e Bettino Ricasoli.
Di lì a poco la Corona ebbe l’omaggio solidale di Giosuè Carducci. In “Piemonte” il “maestro e vate della terza Italia” evocò l’omaggio dei patrioti a Carlo Alberto agonizzante a Oporto. Ricordò che erano stati i patrioti, molti dei quali massoni, a volere i Savoia a Roma.
Toccava a loro di mantenerveli, perché i re erano gli unici veri garanti di unità, indipendenza e libertà degli italiani.
Secondo il racconto del cappellano maggiore, canonico Vittorio Anzino, che gli impartì il viatico nei modi documentati da Aldo G. Ricci, re Vittorio invocò la benedizione del Signore sul figlio Umberto di Piemonte, al quale passava «un brutto fardello, oh che “brut fardel”!». Era andata peggio a fra Giacomo da Poirino, sospeso “a divinis” per aver amministrato l’estrema unzione a Camillo Benso di Cavour.
Nel trentennio di Vittorio Emanuele II l’Europa cambiò profondamente.
Malgrado conflitti circoscritti, la pace generale resse.
Nacquero Stati indipendenti nell’Europa orientale e si moltiplicarono le rivendicazioni dei popoli senza Stato.
Sorto per propiziare la stabilità, il Regno d’Italia estese la sua costruttiva influenza dalla Grecia al Portogallo (il cui sovrano, Luigi I, sposò Maria Pia, terzogenita di re Vittorio) e alla Spagna, ove per breve tempo regnò il suo secondogenito, Amedeo duca d’Aosta.
Vittorio Emanuele instaurò lungimiranti legami con il conferimento di collari della
Santissima Annunziata, comportanti il rango di “cugino del Re”, anche a sovrani e a prìncipi non cattolici, in una visione universale della missione dell’Italia unificata.
Nel 2011 un importante “Fondo ambientale” pubblicò i ritratti dei quattro artefici dell’unificazione: Mazzini, Garibaldi, Cavour e Azeglio.
Con un errore di merito e di metodo re Vittorio non vi comparve. Eppure l’unità degli italiani è anzitutto opera sua.
Aprendo l’ottava legislatura del Regno, il 18 febbraio 1861, egli affermò che l’Italia era
«libera e unita quasi tutta per mirabile aiuto della divina Provvidenza, per la concorde volontà dei popoli e per lo splendido valore degli eserciti”.
San Paolo VI nel 1970 riconobbe che l’annessione di Roma all’Italia fu provvidenziale.
Nel 150o di porta Pia e nel 200o della sua nascita, Vittorio Emanuele II e suo nipote Vittorio Emanuele III, che nel 1918, al termine della prima guerra mondiale, ne completò l’opera, vanno ricordati insieme all’Altare della Patria, dinnanzi al sacello del Milite Ignoto, emblema dell’«itala gente da le molte vite».
Il busto realizzato da Leonardo Bistolfi, celebre
scultore fra otto e novecento, giace in un sottoscala
Il bronzo voluto dal Comune di Saluzzo e dai cittadini è conservato presso il museo
di “Casa Cavassa”, con quelli di Umberto I e di Carlo Alberto, purtroppo sfregiato
Il Comune di Saluzzo e i suoi cittadini sottoscrissero l’erezione di un monumento a Vittorio Emanuele II.
Lo realizzò Leonardo Bistolfi (Casale Monferrato, 1859-La Loggia, 1933), tra i più celebri scultori italiani fra Otto e Novecento.
Il bronzo è un vero capolavoro.
Sempre per Saluzzo Bistolfi realizzò il busto di Umberto I, scoperto l’8 settembre 1901, a un anno dal regicidio, avvenuto il 29 luglio 1900) alla presenza di Vittorio Emanuele III e della regina Elena, giunti dal castello di Racconigi.
Non rimane traccia della base del monumento di re Vittorio.
Quella del busto di Umberto recava la scritta: «Umberto I Re d’Italia/Prode nell’armi, della pace leale custode,/visse pel suo popolo, beneficando./Morì martire./Municipio-Città, MCMI 8 settembre”.
I due bronzi, di alto valore artistico e storico, giacciono in un sottoscala del museo di “Casa Cavassa” a Saluzzo, con quello di Carlo Alberto, sfregiato (forse quando vi venne precipitato).
Le loro fotografie, scattate da Gian Carlo Durante, nel 2001 furono pubblicate in “Saluzzo-Una antica capitale” (fondazione “Cassa di risparmio di Saluzzo”, “Newton Compton editore”, 2001).
Da allora nulla è mutato, se non l’accumulo di polvere. Sulla storia.
Il 24 dicembre 1885 il ventiseienne Bistolfi fu iniziato massone nella loggia “Dante Alighieri” di Torino (matricola numero 7.167).
Molto apprezzato da Vittorio Emanuele III, che l’incontrò ripetutamente anche nella sua “officina” a La Loggia, il 1o marzo 1923 venne nominato senatore del Regno con Giovanni Agnelli. Lui per la 20a categoria (“illustrazione della Patria”), l’altro per la 21a (il censo).
Patriota, Bistolfi credeva nello stellone d’Italia. E rispolverarne le opere?
Il re soldato nelle lettere scritte, diciottenne, alla moglie Maria Adelaide di Asburgo
Una significativa testimonianza della brutalità della guerra a metà Ottocento è offerta dalle lettere di Vittorio Emanuele alla consorte, Maria Adelaide di Asburgo, pubblicate nel 1966 a cura di Francesco Cognasso.
Duca di Savoia e comandante della Riserva, la divisione da lanciare in campo gli interventi risolutivi, in lettere affettuose e briose “Luf Victor” o “Puozzi”, come si firmava nella corrispondenza con “Chère poucette” o “Mon oiseau” (affettuosi nomignoli della consorte, “Chère femme”, “Chère amie”…), il diciottenne Vittorio Emanuele narrò quasi ogni giorno l’andamento della guerra contro l’Austria (1848), spiegandole il crescente risentimento che la condotta del nemico suscitava nei soldati dell’armata sarda: militari, non orde barbariche.
Il 3 aprile 1848 Vittorio Emanuele le scrisse (in francese): «I nostri soldati sono magnifici e furibondi (…). Quanto era stato detto dell’armata croata è nulla a confronto della verità. Ciò che hanno fatto alle donne e ai bambini grida talmente vendetta che sono sicuro che li si ammazzerà tutti. Essi infilzavano tutti i piccoli sulle loro baionette e aprivano il ventre delle donne mettendoci dentro due o tre cartucce, nel… e gli davano fuoco; poiché erano stese, esplodevano come una mina».
Il 12 maggio 1848 Vittorio Emanuele fu decorato al valore nell’Ordine militare di Savoia. Lo stesso giorno lamentò di essere costretto a rimanere rintanato in stato d’allerta in cascine disabitate e piene di insetti.
In un’altra lettera deplorò: «Ho visto una ritirata di tedeschi verso Verona, costretta dalle nostre truppe che avanzavano sempre a colpi di cannone. Ho visto saltare tre mine. Ho visto l’incendio di tre paesi. Questa mattina sono stato circondato dall’incendio fatto dai tedeschi; quando sono battuti, uccidono tutte le donne e massacrano i bambini che impalano e danno fuoco a tutti i paesi, mentre i nostri soldati, morti di fame e di fatica, si privano del poco pane che mangiamo, perché non se ne trova più nulla, per darlo ai prigionieri che facciamo. L’ira dei nostri soldati è all’ultimo grado. Ho paura di non poterli più trattenere e sicuramente la vendetta sarà terribile, perché hanno sete di sangue».
La guerra era un’immensa fornace. Vittorio Emanuele fu scosso dal sacrificio degli studenti universitari a Curtatone e Montanara e promise: «Noi saremo sempre i valorosi difensori dell’Italia», mentre il re delle due Sicilie, Ferdinando II di Borbone, «venendo meno agli impegni, ha richiamato da Napoli le truppe che aveva inviato qua e fa cannoneggiare Napoli e si mette al sicuro quell’imbroglione».
Se ne rammentò da re nel 1859, e ricordò pure la condotta dei repubblicani milanesi contro suo padre: «Porto la vendetta nel cuore e un odio implacabile per questa indegna città».
Il 9 agosto 1848 la marchesa Costanza d’Azeglio a sua volta descrisse al figlio le condizioni dei militari del Regno di Sardegna: «Senza aver perduto una battaglia siamo finiti in una ritirata come quella di Russia nel cuore di un Paese ricco e prospero come la Lombardia, un Paese che volontariamente si era unito a noi. I nostri soldati si sono battuti fintanto che le forze non gli sono mancate, ma la fame e la sete li hanno decimati, la demoralizzazione ha avuto il sopravvento. (…) Bisogna vederli. Sono proprio delle mummie, la pelle nera e secca, lo sguardo fisso, si capisce le sofferenze che hanno passato».
Tutti patirono, gli ufficiali come i soldati.
E tutti insieme ripresero la guerra nel marzo 1849.
La sera della sconfitta di Novara (23 marzo 1849) Vittorio Emanuele informò sinteticamente Maria Adelaide dell’abdicazione del padre, che lo abbracciò l’ultima volta sul campo e chiese a lui e a suo fratello minore, Ferdinando, di “non odiarlo troppo”. Con quel nodo in gola il cinquantunenne Carlo Alberto partì per il Portogallo ove morì di angoscia cinque mesi dopo.
A sua volta Vittorio Emanuele soffocò il singhiozzo, ma non dimenticò.
Dopo quell’amara giornata, la “brumal Novara”, come scrisse Giosuè Carducci nell’ode “Piemonte”, iniziò la riscossa, coronata nel 1859 con le vittoriose battaglie di Magenta e Solferino-San Martino. L’armata sarda mostrò che gli italiani sapevano battersi. I marescialli di Napoleone III passarono dalla sottovalutazione e dalla diffidenza alla stima. Gli italiani non erano più sotto tutela, un alleato “corvéable à merci”. Erano una Nazione. Una Nazione armata.
Sul punto di partire per la nuova guerra contro gli “allemands”, il 30 aprile 1859 Vittorio Emanuele II scrisse il suo testamento a Giovanni Nigra, già ministro delle finanze con Cavour e poi della Real Casa: «Nella mia assenza vi affido tutto ciò che ho di più caro e prezioso: i miei figli, la mia casa. Se sarò ucciso ponete al sicuro la mia famiglia e ascoltate bene questo: vi sono al Museo delle armi quattro bandiere austriache prese dalle nostre truppe nella campagna del 1848 e là deposte da mio padre. Questi sono i trofei della sua gloria. Abbandonate tutto, al bisogno, valori, gioie, archivi, collezioni, tutto ciò che contiene questo palazzo, ma mettete in salvo quelle bandiere. Che io le ritrovi intatte e salve, come i miei figli. Ecco tutto quello che vi chiedo, il resto non è niente».
Onore, fedeltà e memoria dei padri furono le vie maestre per fare l’Italia.
Perciò, a buon diritto, Vittorio Emanuele di Savoia tenne l’ordinale II nel passaggio dalla corona di Sardegna a Re d’Italia.
La coppia reale che riposa a Vicoforte
Dal 17 dicembre 2017 la salma di Vittorio Emanuele III riposa nel santuario di Vicoforte.
Partite da Alessandria d’Egitto, dov’erano sepolte nella Cattedrale di Santa Caterina, le spoglie mortali del Sovrano rientrarono in Italia a bordo di un volo militare, atterrato all’aeroporto di Levaldigi.
La principessa Maria Gabriella di Savoia, che propiziò la traslazione con il professor Aldo
A. Mola, presidente della Consulta dei senatori del Regno, ringraziò pubblicamente il capo dello Stato, Sergio Mattarella, per aver contribuito in modo determinante alla concretizzazione di un progetto coltivato per anni. La prima istanza risaliva infatti al 2011. Il Re riposa nella cappella di San Bernardo accanto alla moglie, Elena di Savoia, la cui salmapochi giorni prima era stata trasportata a Vicoforte da Montpellier (Francia).