IDEA n.13 del 2 aprile 2020
Il celebre autore ha adattato il testo di “Il mio canto libero”: «L’ho fatto in 15 minuti. Avete visto? Le canzoni sanno unire»
L’attacco di una delle canzoni più suggestive della musica italiana al primo ascolto regala subito un’emozione intensa. Qualcosa che si percepisce fin dalle prime battute, difficile da descrivere ma scalda il cuore. Accade un po’ per tutte le (splendide) canzoni di Lucio Battisti, opere immortali.
La meraviglia si ripete con un video che circola da qualche giorno in rete. Le immagini, però, sono spiazzanti: camici bianchi alla batteria e alla chitarra, lo stetoscopio che serve per auscultare i pazienti lascia spazio per un attimo alle cuffiette per la musica. Le mascherine abbassate. Immagini in rapida successione di medici che compongono, cantano, ballano e suonano.
La musica è sempre quella del grande classico “Il mio canto libero”, le parole sono diverse: raccontano l’attualità del covid-19. Parlano dell’emergenza sanitaria che siamo tutti costretti a vivere, chiusi nelle nostre case. E dell’isolamento che si è reso necessario per ridurre e fermare la diffusione del coronavirus. Note che amplificano l’invito a osservare le limitazioni, già diffuso ovunque, rendendolo un po’ meno asettico, un po’ più partecipato: restiamo a casa per il bene di tutti.
A cantare, nel video, sono proprio i medici, quelli che più di tutti in questi giorni vivono l’emergenza in prima linea e lottano per contrastare l’epidemia. È una canzone contro la paura, una canzone che unisce. L’idea risale a qualche giorno fa, quando la Federazione italiana delle Società medico scientifiche (Fism) ha contattato direttamente l’autore della canzone in questione, ovvero Mogol. Che a IDEA spiega come tutto sia nato in pochi attimi: «Ho parlato con Michele Karaboue della Fe derazione dei medici, mi ha pregato di pensare a qualcosa che aiutasse a diffondere solidarietà.
Mi è sembrato giusto fare qualcosa. In realtà, ho detto che saremmo stati tutti noi a dover dedicare ai medici un inno, una canzone, per il grande e rischioso lavoro che stanno svolgendo ogni giorno. Anche per questo, ho trovato molto bello il loro gesto. Qualcosa di spontaneo e toccante, un segnale di generosità.
E allora in un quarto d’ora ho scritto l’inno». Nuove parole per un testo concepito a inizio anni ’70 e scritto dallo stesso Mogol assieme a Battisti. L’autore ci spiega quale fu l’ispirazione che all’epoca fece nascere quella canzone:
«Attraversavo un momento molto difficile della mia vita, sperimentai l’isolamento. Anche se le motivazioni erano diverse da quelle attuali. Avevo appena vissuto un’esperienza di separazione, qualcosa che porta sempre una sofferenza reale. Qualcosa che ti costringe a restare solo, quindi isolato. Qualcosa che ti porta anche a riflettere».
Ecco allora il legame con l’attualità, perché anche questa situazione impone una valutazione generale, riflessioni approfondite. La forza di una canzone sta nel favorire questo processo di introspezione. «Ti aiuta a trovare un dettaglio che prima magari non avevi considerato con sufficiente attenzione». Dice Mogol. L’inno dei medici intanto è già stato diffuso. «L’ho visto al Tg5, lo stanno trasmettendo».
Un po’ come nel caso del film di Gabriele Salvatores (a cui abbiamo dedicato un articolo in altra parte della rivista), coinvolge direttamente le persone e, soprattutto, le unisce. «Lo abbiamo visto in questo periodo», fa notare Mogol, «ed è stato uno degli aspetti migliori di questa drammatica emergenza.
Le persone si sono unite in un unico sentimento. Lo hanno fatto aprendo le finestre e uscendo sui balconi per cantare. La musica ha permesso questa piccola magia, ha unito le famiglie. Tutti insieme, sono stati gesti di grande solidarietà. Gesti che fanno a riflettere, in fondo, sul significato della vita in un momento così drammatico per tutto il mondo. È stato bello vedere quelle immagini».
Così come sono coinvolgenti le note dell’inno dei medici contro il coronavirus. Il video è stato rilanciato anche dal Ministero della Salute sul sito istituzionale. La Fism ha sottolineato l’impegno dei medici e la disponibilità di quelli che hanno accettato di partecipare alla realizzazione della clip, pur impegnati nelle cure per i contagiati da covid-19.
Medici che tra un turno e l’altro hanno trovato il tempo di valorizzare anche le diverse capacità musicali, sottolineando come il difficile lavoro negli ospedali debba essere sostenuto dall’impegno di tutti. Perché il senso di tutto questo è riassunto dalla frase ricorrente della canzone riscritta con abile attenzione da Mogol: “Domani un nuovo giorno sarà”.
UNA SPLENDIDA SERATAPER FESTEGGIARE I 25 ANNI DI “IDEA”
E IL MEZZO SECOLO DI CARRIERADI GIULIO RAPETTI
«Ciò che ho gradito di più è stata la stima della gente, il comprendere che quello che ho scritto è stato assorbito. non sapevo lo fosse stato così tanto». Queste le parole con cui mogol ebbe a commentare il grande affetto con la quale tante gente festeggiò i suoi 50 anni di carriera, nel 2011.
Tra i tanti momenti attraverso cui fu ripercorsa l’ineguagliabile carriera di Giulio Rapetti mogol (nome d’arte che con decreto del ministro degli interni dal 2006 fa parte integrante del cognome dell’artista), anche la partecipatissima serata organizzata dalla rivista idea presso il teatro sociale “Giorgio busca” di alba, pieno in ogni ordine di posto sia nella sala nuova, che nella bella sala storica “Marianna Torta Morolin” dove fu collocato un maxischermo che a fine serata venne alzato per permettere all’autore di affacciarsi e salutare di persona gli spettatori.
Mogol (nella foto a lato sul palco della sala “Michelangelo Abbado”, di cui si vede una panoramica nell’immagine in basso) raccontò aneddoti divertenti e del tutto inediti e, dalla viva voce di uno dei suoi protagonisti, si poté scoprire perché finì il sodalizio con Lucio Battisti (la rottura non fu originata da uno scontro personale, bensì soprattutto da divergenze di interessi, anche economici, le quali non minarono il rapporto umano fra i due) che ha dato alla musica leggera capolavori immortali sono solo in coppia con il cantautore mancato nel 1998.
Mogol è grande anche a prescindere da battisti, come testimoniano le millecinquecento canzoni da lui scritte, gran parte delle quali ben note all’orecchio di centinaia di milioni di persone perché hanno varcato i confini della penisola. Sei decenni di musica italiana sono indissolubilmente legato a lui, da “una lacrima sul viso”, “riderà” e “canzoni stonate” a “io non so parlar d’amore” e “rinascimento”, passando attraverso migliaia di altri successi che ciascuno di noi ha canticchiato almeno una volta.
Canzoni rievocate durante la serata, la cui scaletta fu resa ancora più coinvolgente dalla proiezione di video d’epoca e dalle esecuzioni dal vivo strappa-applausi di tre ex allievi, ora docenti, della scuola fondata in Umbria dallo stesso mogol.
Il gran finale è stato affidato a sette bravi cantanti non professionisti, in rappresentanza di ognuna delle altrettante “città sorelle” della Granda, selezionati dalla presentatrice della serata, Elena Lovera (nella foto al centro, con l’editore della rivista idea, Carlo Borsalino).