IDEA n.13 del 2 aprile 2020
Martina Botto di Belvedere Langhe racconta i primi giorni al “Carle” di Cuneo accanto ai pazienti positivi
I freddi numeri di una statistica o i dettagli da cui trarre il senso dell’intero sono gli strumenti più efficaci per analizzare momenti come quello che stiamo vivendo. I dettagli, però, spesso sanno condurre più vicino al cuore della questione.
Così, nel mezzo di un’intervista che ha come tema “il” tema, ovvero la battaglia in corso contro il covid-19, raccontata da chi la sta conducendo in prima linea, può capitare di accorgersi di non aver capito fino in fondo il nemico che si ha di fronte.
«Una volta entrata nella camera dei pazienti ho tutto il necessario per lavorare», spiega Martina Botto, da pochi giorni operativa presso il covid 1 ex medicina “Carle” di Cuneo. «Se mi manca qualcosa, chiedo ai colleghi all’esterno di passarmelo, perché ciò che entra in stanza non esce più; quindi aghi, cotone, cerotti lì si trovano e lì restano. Prima di uscire dalla stanza, scrivo i parametri vitali dei pazienti su un foglio e lo appiccico sul vetro della porta finestra, poi uscendo passo sul ballatoio e li ricopio».
Ed ecco il dettaglio rivelatore: neanche un foglio può uscire dopo essere stato nello stesso ambiente di pazienti infetti. Un particolare che per chi lo ripete ogni giorno decine di volte è prassi, ma che i comuni mortali (i quali mai come in questo momento sono stati consapevoli di essere tali) è un’epifania. Basta un foglio per rischiare il contagio. Ci è voluto tempo per capirlo e per attuare l’unica contromossa possibile: “restare a casa”.
“Restare a casa”, se non sei un medico o un infermiera, però. Per loro l’imperativo cambia e diventa un auspicio: “poter tornare a casa”, dopo turni di 12 ore con pause brevi e senza la possibilità di liberarsi dei dispositivi di protezione che sono una sicurezza, ma anche un fardello. Martina Bot to, di Belvedere Langhe, in for za al reparto di ortopedia del “Santa Croce” di Cuneo, racconta a IDEA cosa abbia rappresentato passare dall’essere infermiera di area chirurgica a infermiera di “medicina di guerra”.
Quanto è passato tra quando ha saputo che sarebbe andata al “Carle” e il suo primo giorno?
«Me l’hanno detto il martedì; il giovedì ho fatto il sopralluogo e il venerdì ho iniziato. Quel martedì ho lavorato 12 ore in ortopedia, per via di una sostituzione. In ogni reparto dell’ospedale la situazione è critica. Anche in quelli di degenza ci si ammala e inoltre parte del personale infermieristico viene trasferito al “covid hospital”, per fronteggiare l’emergenza».
Quello della notizia del suo impiego al “Carle” è stato il momento emotivamente più difficile, oppure il primato spetta al primo giorno in corsia?
«In realtà, il momento più difficile da gestire da un punto di vista emotivo è stato il giorno del sopralluogo con la caposala. Quando ha spiegato a me e ad altri 4 colleghi come monitorare i pazienti eravamo sul balcone, con un traversa calda sulle spalle, indossando i dispositivi di protezione del caso e guardavamo dentro una stanza piccola, con tre letti occupati da persone sole che mi davano l’impressione di essere giustamente terrorizzate.
Vedevo noi cinque riflessi nel vetro e loro che ci salutavano con la mano come i bambini il primo giorno di asilo. I pazienti ci chiamano per nome perché è scritto sul tutone: serve per riconoscerci tra di noi, perché sei talmente coperto che non riesci a distinguere nemmeno i colleghi. Non so che idea abbiamo i pazienti di noi.
Non ci riconosceranno mai, perché siamo tute bianche indistinte; ci chiamano per nome perché lo leggono, ma quel nome non è associato a nessun viso. Eppure siamo il loro unico riferimento, l ’ultimo contatto con il mondo esterno sino a quando rimangono lì.
Il terrore e il senso di solitudine che ho percepito in quel momento mi ha disarmata. Credo che per capire davvero cosa sia il covid- 19 dovremmo fermarci tutti per qualche minuto su quel balcone ».
Il coronavirus passerà. Ma cosa lascerà in chi, come lei, lo ha conosciuto da così vicino?
«Credo che questa esperienza resterà come una ferita su ognuno di noi, infermieri e medici, in primo luogo. Sta a noi trasformarla in un tatuaggio, abbellendola un po’ per renderlo che ci piace, destinato ad accompagnarci per il resto della vita. Per molti, però, temo rimarrà il segno di una orribile cicatrice»
CON TRE PAIA DI GUANTI DIFFICILE ANCHE FARE UN PRELIEVO
Ci descrive quali sono i passaggi da quando arriva al “Carle” a quando entra nella stanza dei pazienti?
«Arrivo con i miei abiti normali, raggiungo gli spogliatoi con la mascherina chirurgica. lì indosso una divisa pulita e un paio di calzature sanitarie e raggiungo la prima zona filtro, dove trovo una tuta impermeabile che mi copre da caviglie sino al collo e dispone di un cappuccio. mi metto un paio di guanti e cambio le calzature.
Dalla zona filtro in poi nulla di quello che entra può uscire. dopo aver indossato la mascherina con filtrante facciale e un secondo paio guanti accedo al reparto; lo step successivo, se entro in camera con il paziente, prevede che indossi il visor, una specie di occhialone da saldatore, per intenderci e il terzo paio di guanti.
Se entro in contatto con il paziente aggiungo ancora un camice sopra al tutone. è buffo ripensare a quando all’università ti dicono di usare i guanti con criterio perché creano una barriera tra te e il paziente. ora invece questi pazienti, alcuni anche molto giovani e per la maggior parte uomini, che avrebbero bisogno di un abbraccio vista la situazione e la solitudine, chissà cosa provano nel vedendoci entrare così coperti».
Ci sono casi di pazienti che l’hanno colpita particolarmente?
«marito e moglie intorno ai 70 anni che sono andati in pronto soccorso perché uno dei due aveva la febbre. Il tampone è risultato positivo, così come quello del coniuge. da quel momento non hanno più visto nessun familiare e sono stati ricoverati con gli abiti che avevano addosso, senza la possibilità di cambi: mi hanno fatto tenerezza.
è poi un paziente 50enne che mi ha chiesto un particolare tipo di acqua per alcuni suoi problemi ai reni. Gli ho detto, sorridendo, che non era possibile, ma che potevo dargli una delle mie bottigliette in aggiunta a quella dell’ospedale.
Lui ha colto il sorriso dalle rughe degli occhi, perché non vedeva altro del mio viso, ha letto il mio nome sulla tuta e mi ha detto: «Marty, per ora posso dirti solo grazie, ma se esco vivo di qui, ti sarò riconoscente per tutta la vita».
PIÙ CHE LA PAURA È LA LONTANANZA A FARSI SENTIRE…
Dalle sue parole si capisce che è ben consapevole dei rischi esistenti, però non sembra avere paura del contagio
«forse è dettato dall’età, o più probabilmente è un mio tratto caratteriale. quando vado in ospedale faccio quello che de vo per la tutela della mia salute e mi proteggo il più possibile, ma poi la passione per il mio lavoro mi porta a viverla comunque bene, senza grandi patemi. d’altronde, quando entro in reparto al “Carle” so chi ho di fronte; in ortopedia, magari, poteva benissimo capitare di entrare in contatto con un paziente che avesse contatto il coronavirus senza saperlo e a cui mi sarei relazionata con una semplice mascherina chirurgica. quindi anche prima correvo dei rischi, anzi.
Sotto l’aspetto fisico, invece, dopo un turno di 12 ore ho il naso che sembra un peperone, dolente e rosso. l’abbigliamento protettivo ti fa sudare quando sei dentro, poi esci sul bancone e quindi rientri in un’altra stanza con notevoli sbalzi di temperatura».
E quando torna a casa come va con la paura?
«Vivo da sola e da questo punto di vista è un bene. una mia collega con bimbi piccoli, una volta uscita dall’ospedale e espletate tutti le operazioni per disinfettarsi si ferma in una casa di proprietà dei genitori, si fa un’altra doccia, si toglie i vestiti con cui è andata a lavorare, lasciandoli in quella abitazione e poi raggiunge la famiglia, sempre con un po’ di apprensione. Quando va a lavorare, segue il processo inverso, cambiandosi i vestiti nella seconda abitazione.
Io ho la fortuna di non dovendomi preoccupare di poter rappresentare un fattore di rischio per esempio per mio padre quasi settantenne. Di contro, però, nei momenti di tristezza e solitudine non ho il conforto della presenza fisica della mia famiglia».
Come affronta la lontananza?
«naturalmente al telefono, sentendo i miei genitori e mia sorella. più di ogni altra cosa, però, ciò che mi tira su il morale sono le videochiamate che faccio ai miei due nipoti. Il particolare, con il più grande, di quasi tre an ni, mi cerca attraverso la chiamata video di facebook mes senger. Lui usa uno degli effetti dell’app che lo trasforma in un “dlago” e così mi parla tutto contento, lanciando fiammate».