Sguardi di una commissione vigile e attenta; gruppi di parenti e amici, preda di uno stato d’animo a metà tra la gioia che provoca commozione e l’entusiasmo che intende infondere conforto: un discorso da tempo architettato e levigato nei minimi dettagli che eppure, nel momento della discussione, riesce a sfuggire a qualsiasi disegno preparatorio ed emana la melodia tipica dei suoni pronunciati per la prima volta.
Ancora, il momento “solenne” dell’incoronazione, in cui le foglioline della pianta sacra ad Apollo, verdeggianti e vivificate dall’imminente primavera, cingono il capo del neo-dottore, di colui che è, come vuole l’antico etimo latino, più dotto in un determinato ambito; di colui che, immergendosi completamente nelle acque di quel mare che sentiva a lui più affine, nel solco del vastissimo oceano della conoscenza, ne è ora divenuto esperto navigatore.
È più o meno così che ricordo il giorno della mia laurea, un giorno di fine febbraio, in cui, rispetto al momento attuale, un’aula universitaria appositamente adibita ancora costituiva la tradizionale ambientazione di una proclamazione in presentia; in cui la stretta di mano della propria relatrice ancora era gesto che, nonostante il mutismo apparente, sprigionava appieno la gratitudine travolgente che si accumula nella condivisione di un percorso; un giorno di febbraio in cui accogliere l’altro tra le proprie braccia, per sentirne e rispettivamente trasmetterne la propria forte emozione, era ancora cosa lecita.
Il giorno della laurea è il coronamento di un percorso che, ripercorso à rebours, indietreggia sino a risalire a ben prima dei mesi impiegati nella stesura di un elaborato di tesi, delle sessioni dedicate alla preparazione degli ultimi esami, dei semestri trascorsi a seguire corsi e lezioni; un percorso che risale a ben prima persino dei giorni spesi a compilare tutta la modulistica necessaria al completamento dell’iscrizione all’università o di quelli, ancora precedenti, in cui, in balia della più destabilizzante confusione, ci si è domandati quale fosse, o se perlomeno esistesse, un’università adatta a noi.
In questo giorno, unico e totalizzante traguardo reso possibile dal condensarsi dei lasciti delle varie tappe affrontate nel proprio iter di vita, un pensiero ricorre al Liceo Classico G. B. Bodoni di Saluzzo, che, al di là della preparazione contenutistica, per me fondamentale nell’ambito di una facoltà umanistica quale quella cui attualmente mi dedico, è stato realmente un “ginnasio” di allenamento in vista del futuro.
Una palestra per il sollevamento di ingenti pesi, quali la mole di studio richiesta da esami particolarmente consistenti; per la sollecitazione del proprio spirito critico, il quale rende abili nell’osservazione, nel ragionamento, nell’arte di istituire collegamenti. Un’anticamera per l’addestramento della propria capacità organizzativa, per il rafforzamento della propria forza di volontà, per l’incremento della propria determinazione nel perseguimento di obiettivi prefissati e nel rispetto delle scadenze.
Un sussidio alla fortificazione della propria indipendenza e responsabilità, grazie alle quali essere in grado di stabilirli autonomamente, i propri obiettivi e le proprie scadenze. Una scuola che insegna il valore della socialità e della collaborazione, della fatica e del riposo, del tempo e della soddisfazione che si prova nell’impiegarlo in qualcosa di produttivo. Una bussola temporanea, preposta all’indirizzamento e alla guida dei propri allievi, in attesa che ciascuno di essi maturi il proprio senso di orientamento e intraprenda la propria strada.
Ludovica Rossi
ex allieva
Liceo Bodoni – Saluzzo
c.s.