Giovanni Minoli, ci racconti prima di tutto il suo legame con il Piemonte e con Torino.
«È molto più di un legame, sono torinese doc da alcune generazioni. La mia città è Torino, anche se vivo da tanti anni a Roma. Vengo spesso a trovare gli amici, per cinque anni sono tornato a frequentarla regolarmente quando ero presidente del Museo d’Arte contemporanea di Rivoli. Resta sempre la città del mio cuore, la mia capitale».
Anche lei l’ha vista diventare più bella nel corso degli anni?
«Sì, ora è molto più bella di prima. La vecchia immagine che la caratterizzava, velata di tristezza, si è finalmente colorata. Il grigio Fiat non c’è più, ha lasciato il posto a un look che ispira maggiore fiducia e speranza, anche se purtroppo in generale la povertà è aumentata».
Ora siamo in piena sfida coronavirus: come ne uscirà l’Italia?
«Difficile dirlo adesso. Si tratta di una rivoluzione antropologica, oltre che culturale ed economica. Una situazione che sta già mettendo in plastica evidenza quello che è il fallimento totale del turbo-globalismo, attraverso tutta una serie di fragilità diffuse».
Proprio per questo, potrebbe essere l’occasione per ripartire su basi nuove?
«Questa è la speranza. Come in tutte le situazioni dolorose, ci si può e si deve fermare a riflettere. Bisognerà quindi ripensare il modello di sviluppo che oggi è purtroppo in mano a una decina di ricchissime società al mondo. Va rivalutata la scala dei valori».
Con l’uomo di nuovo al centro?
«Sì, il mondo dovrà smetterla di pensare al Pil e puntare tutto sul… Bil».
Ovvero?
«B come benessere, benessere della vita».
Il governo attuale in quale direzione sta andando, secondo lei?
«Il governo purtroppo vive pigramente dentro Facebook, oppure nelle stanze del Grande fratello».
Perché mancano personaggi di spessore?
«Perché i personaggi così, per essere tali devono studiare molto, sono personaggi che conoscono il valore del sapere. Non conta avere il titolo da professore se non si è in grado di aggiornarsi e di continuare a studiare. Poi un creativo può sempre emergere, ma si tratta di un’eccezione non di una tendenza diffusa. Questa epoca in generale non lo consente».
Esiste nel panorama attuale un personaggio a cui affidare una speranza di rinascita?
«Non può essercene uno solo, ne servono tanti. Un’intera classe dirigente. Un uomo solo al comando, storicamente lo abbiamo visto in Italia, si sa a quali conseguenze può portare».
Insomma, cosa potremmo salvare della realtà attuale?
«Stiamo assistendo a un contributo importante da parte del terzo settore nell’assistenza all’emergenza del coronavirus. Ecco, le persone che lavorano lì sono più attive e intelligenti».
Potrebbe essere questa una strada da seguire in Italia, partire da chi ha valori positivi?
«Sarebbe la base su cui creare e far crescere una rete di brave persone».
Veniamo alla televisione, che lei conosce bene. Cos’è diventata oggi?
«Non esiste più, in realtà. Oggi ci sono tante tv, non una sola. E purtroppo la Rai non ha colto l’occasione del cambiamento. Guardate che cosa ha fatto in Gran Bretagna la Bbc con il suo progetto Schools, ha messo un servizio educativo a disposizione delle persone».
Lei ora conduce “Il mix delle cinque” su Radio 1 Rai, il lunedì e il venerdì. Che cosa pensa del media radiofonico?
«Che è molto affascinante e ne sono innamoratissimo. Avevo già condotto Mix24 su Radio24. La radio è più sexy della tv, perché la parola stimola la fantasia più dell’immagine. È un mezzo che chiede una reazione ed è più elastico».
La Rai cosa deve cambiare?
«È strutturata bene: Rai1 per l’informazione, Rai2 per l’intrattenimento, Rai3 per la cultura. Però in tv bisogna continuamente aggiornare il linguaggio».
Nell’immaginario collettivo c’è lei assieme a Gianni Agnelli nell’intervista a Mixer. Che personaggio era l’avvocato?
«Un uomo che ha segnato un’epoca, figlio del famoso Piano Marshall, capace di creare un canale privilegiato tra Usa e Fiat. Che con Valletta si sviluppò anche a est grazie all’operazione Togliattigrad. La Fiat fece da battistrada per l’Italia. Agnelli era nelle grazie dell’élite anglosassone, amico di Rockfeller e Kissinger. Un uomo di mondo in un’Italia ancora molto provinciale».
Crede che possa aprirsi un asse alternativo a quello americano, seguendo la Via della Seta?
«Bisogna riflettere molto, è una strada da valutare attentamente. Non dimentichiamo che un consigliere di massima fiducia dei Ming in Cina fu un gesuita italiano, Matteo Ricci. Oggi potrebbe essere una tentazione per la Chiesa. Con i cinesi bisogna sempre trattare, è possibile farlo, ma sempre con i piedi di piombo».
Oltre ad Agnelli, intervistò Craxi: l’Italia lo ha rivalutato?
«Non rivalutato ma valutato per quello che era, un riformista e un visionario. Anche i comunisti di allora hanno riconosciuto che il suo famoso discorso alla Camera fosse giusto. Sigonella? Un gesto di autonomia politica e culturale che finì per pagare».
Come giudica l’informazione italiana?
«Un mondo chiuso, pieno di privilegiati e di paria, che si parla addosso. Non a caso la gente non legge più i giornali».