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Facciamo chiarezza sui test rapidi per il Covid-19

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Sempre più frequentemente in queste giornate si sente discutere e argomentare sui test necessari per accertare la positività al cornavirus.

Cosa sono questi test rapidi? Come funzionano? Che differenza c’è tra tampone e test rapido? I risultati sono affidabili e facilmente interpretabili? Quali potrebbero essere le conseguenze di un loro largo utilizzo per i singoli cittadini e per la comunità?
Per indagare e ricevere risposte competenti parliamo con il dottor Marco Aragno, direttore sanitario del Centro medico Della Valle di Alba, appartenente alla famiglia del gruppo Bios – Della Valle.

Per prima cosa, dottore, che cosa è il coronavirus?
«Si tratta di un virus, per l’esattezza “Sars-coV-2”, composto da particelle virali formate da un frammento di materiale ge­netico, il cosiddetto “rna”, all’interno di un involucro contenente proteine, circondato da un ulteriore involucro membranaceo. Il virus penetra nell’organismo soprattutto a livello delle vie respiratorie, dove inizia a replicarsi. La replicazione può restare limitata alle mucose del naso e della gola, o estendersi anche alle basse vie respiratorie fino ai polmoni, nell’uomo. I sintomi più comuni di covid-19 sono febbre, stanchezza e tosse secca. Alcuni pazienti possono avere algie diffuse, congestione nasale, rinorrea, faringodinia o diarrea. Questi sintomi sono generalmente lievi e iniziano gradualmente. Alcune persone diventano infette ma non sviluppano alcun sintomo o malessere. La maggior parte delle persone (circa l’80%) guarisce dalla malattia senza ricorrere a trattamenti speciali. Maggiore è l’età dei contagiati e la presenza di problemi medici di base come ipertensione, cuore o diabete, maggiori probabilità si hanno di sviluppare la malattia in forma grave».

Come per tutte le infezioni virali, anche nel caso da infezione da coronavirus il sistema immunitario produce anticorpi, vero?
«Esatto. Alcuni di questi anticorpi, detti IgM, sono prodotti nella fase iniziale dell’infezione e si ritrovano nel sangue a partire, in media, da 4 o 5 giorni dopo la comparsa dei sintomi e tendono poi a scomparire nel giro di qualche settimana. Altri anticorpi, detti IgG, sono prodotti più tardivamente e si ritrovano nel sangue a partire, in media, da un paio di settimane dopo la comparsa dei sintomi, ma possono comparire anche prima, e permangono nel tempo. Gli studi sull’immunità derivante da questo virus sono tuttavia ancora in corso. Come per tutti i test diagnostici, i risultati devono essere interpretati insieme ad altri dati clinici a disposizione del medico. Occorre altresì rimarcare che un risultato negativo non preclude in nessun momento la possibilità di infezione da Sars-coV-2 e non garantisce in senso assoluto la non infettività del soggetto, in considerazione della latenza nella comparsa degli anticorpi».

Soffermandosi sui test diagnostici quali le differenze?
«Il tampone nasofaringeo permette di rilevare il virus su secrezioni respiratorie e pertanto di identificare l’infezione in fase attiva, mentre il test cromatografico rapido immunologico effettua una rilevazione qualitativa di anticorpi IgM e IgG anti-Sars-Cov-2 su sangue intero umano, nel siero o nel plasma. I test basati sugli anticorpi possono identificare pertanto persone che non erano note per essere infette perché non hanno mai sviluppato sintomi o hanno avuto sintomi sfumati e quindi non sono entrate nel percorso di diagnosi che porta all’esecuzione del tampone. Ciò significa che il test può identificare infezioni silenti e identificare persone che hanno contratto il virus ma sono guarite. La ricerca anticorpale e il tampone sono pertanto due opzioni molto diverse tra loro per caratteristiche non solo tecniche ma anche di praticità, tempistiche di esecuzione e finalità per cui non dobbiamo commettere l’errore di considerarli interscambiabili o mutuamente esclusivi, ma cercare di sfruttarne le caratteristiche sinergiche. È evidente che la ricerca virale su secrezioni respiratorie sia l’unico approccio spendibile nella fase 1, sul paziente sintomatico che necessita di diagnosi certa e di cure appropriate e in caso di contatti diretti con pazienti positivi o contesti ad elevato rischio di contagio. La gestione dei “tamponi” è in capo al Sisp che li gestisce in base a linee guida precise.
Tutt’altro concetto è quello relativo alla necessità di adottare un sistema condiviso volto a limitare la diffusione del virus tramite soggetti asintomatici o paucisintomatici, in particolare in ambito lavorativo. Durante l’attività quotidiana come Medico competente emerge chiaramente come l’attuale sistema di gestione del rientro a lavoro di personale che è stato in mutua per sintomatologia sfumata, che pertanto non è stato sottoposto a tampone, non sia sufficientemente standardizzato ma gestito inevitabilmente caso per caso per la mancanza di strumenti e di conseguenza esista un margine di “interpretazione” che non può garantire la necessaria prevenzione della diffusione».

In parole povere, al rientro da una mutua per sintomi anche solo parzialmente sospetti per covid-19, la possibilità di effettuare il test diagnostico rapido potrebbe essere molto utile, nonostante le possibili difficoltà interpretative.
«Questo approccio, integrato ad un percorso di “screening” su larga scala a fini statistico-epidemiologici, credo possa dare un importante contributo alla gestione della fase 2, quella del ritorno progressivo alle attività quotidiane, compreso il graduale rientro al lavoro e alla conseguente riattivazione delle attività produttive. L’ipotesi è quella di promuovere in concerto con le associazioni di categoria (ad esempio Confin­dustria) e le parti sociali uno studio allargato, in tutte le aziende che vogliano aderire, su una popolazione asintomatica con l’obiettivo di far emergere delle indicazioni in merito alla percentuale di lavoratori che hanno già sviluppato anticorpi e quindi alla reale diffusione del contagio, probabilmente a oggi sottostimata».
Ad oggi i test anticorpali sono riconosciuti a livello ministe­riale?
«Ad oggi solo i “tamponi” sono riconosciuti a livello mini­steriale, in accordo con le indicazioni fornite dall’Organiz­zazione mondiale della sanità.
Questo aspetto ad oggi ne limita fortemente le possibilità di utilizzo, in particolare nell’ottica di una gestione globale e sinergica dei dati. Iniziative singole non condivise e non inglobate in un discorso su larga scala rischiano a oggi di essere controproducenti e la speranza è quella di raggiungere quanto prima un’intesa tra tutte le parti in causa».