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Dieci nuove canzoni in attesa di tornare “live”

I Magasin du café affidano a “Samsara” la voglia di far evolvere la propria musica

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Chiusi come siamo nelle nostre case, abbiamo meno op-zioni di intrattenimento, alle quali, però, possiamo magari dedicare maggiore e mi­glior tempo. Per esempio, ascoltando “Samsara”, il nuovo album dei Magasin du café, un quartetto piemontese nato nel 2012 grazie all’unione di in­tenti di Davide Borra alla fisarmonica e Luca Allievi alla chitarra. cui si sono uniti Mattia Floris alla chitarra e voce e Alberto Santoru al contrabbasso elettrico e percussioni.

A Davide Borra il compito di fornire ulteriori elementi per lasciarsi affascinare dal loro mondo. Chi ascolta i Magasin du café che musica apprezza?
«La nostra è musica strumentale, fatta molto di immagini. Al­l’inizio del nostro percorso eravamo legati soprattutto allo “swing” e al “manouche”, mentre ora guardiamo più alla “word music”, a influenze più etniche, che arrivano dal passato. È la novità di quest’ultimo album “Samsara”, il primo tut­to di inediti nostri, che testimonia un’e­voluzione avuta an­che in se­­guito alla partecipazione a vari festival in giro per l’Eu­ropa. Tutto in “Samsara”, anche le scelte grafiche, testimoniano un taglio con il passato; è un disco diverso in cui, per esempio, la fisarmonica, il mio strumento, non ha più grossi melodie, la uso anche con la pe­daliera da chitarra elettrica e al­tri ausili per creare colori e atmosfere diverse. Nes­sun strumento più della fisarmonica è espressione della cultura popolare. È uno strumento molto facile da strimpellare, divenuto d’uso meno comune con la diffusione della chitarra».

Il vostro essere piemontesi e­merge nella musica che fate?
«Due di noi vengono da Car­magnola, uno da Fossano, uno da Bene Vagienna, ma in realtà due elementi del quartetto han­no origini sarde e certe caratteristiche del canto sardo, specie nell’uso della voce, riecheggiano nei nostri pezzi, così come qualche eco celtica, che viene dalla musica occitana. I titoli dei brani però li scriviamo in inglese, perché lavoriamo più all’estero che in Italia. Il mercato della “word music” è più internazionale, da noi festival dedicati a questo genere sono ancora pochi».

Significa che vi trovate a dover spiegare che genere suonate?
«In effetti sì, ma penso che in questo caso sia inappropriato cercare di etichettare quel che facciamo con un genere. Come usiamo la voce, la fisarmonica: è una cosa molto nuova, non c’è una formazione che fa quel che facciamo. I nostri arrangiamenti sono molto liberi, non ci sono strutture fisse, i pezzi sono quasi delle “jam session” in cui ognuno si esprime alla luce di esperienze interiori anche personali».

Perché “Magasin du café” ?
«L’abbiamo scelto perché ci piaceva il suono, ma anche perché all’inizio facevamo mu­sica da bistrot. Io ho vissuto e suonato un anno in Francia e amavo molto questa musica da localino, con influenze del “gipsy” francese, del “manouche”, e cercavamo un nome che evocasse quel mondo».

Con Spotify è avvenuto un cambio di paradigma: chi fa musica non vive più della musica che vende ma della mu­sica che suona, quindi di concerti. Cosa accade ora con le forti restrizioni dovute al coronavirus?
«Ci dobbiamo reinventare tutto. Penso che questo momento storico dia ottime opportunità a noi musicisti perché con un clic possiamo arrivare in tutto il mondo; ora per esempio siamo seguiti dal Giappone, cosa che prima sarebbe stata impensabile. Certo che niente può sostituire il “live” soprattutto nel nostro genere, in cui il concerto non è musica fine a se stessa, ma un’esperienza. La connessione tra le persone che si sperimenta in un concerto dal vivo sarà sempre insostituibile».