“Io resto a casa”: un invito semplice da cogliere, perlomeno per la stragrande maggioranza degli italiani. Alcuni, però, a casa non possono restare, perché sono stati impossibilitati a tornarci. Sono quelli, per esempio, che quando è scoppiata l’emergenza coronavirus si trovavano dall’altra parte del mondo. Tra di loro c’è la doglianese Giulia Cometto, giovane creativa che sta trascorrendo una “quarantena forzata” nelle Filippine, cogliendo da questa esperienza anche interessanti spunti di riflessione.
«Circa un anno fa ho deciso di prendermi una pausa dalla mia vita», spiega Giulia, «e di fare un viaggio nel sud est asiatico, che nelle mie previsioni doveva durare circa 6 mesi. Così, zaino in spalla, il 4 novembre sono partita alla volta dell’India, dove sono stata un mese, poi Nepal, Thailandia e Birmania, dove ho iniziato ad avere le prime notizie sul coronavirus. Quando mi sono spostata nelle Filippine, insieme a un compagno di viaggio che nel frattempo mi ha raggiunto, il virus non si era ancora diffuso in Italia, e sembrava anzi molto più tragico rimanere qua che tornare, ma ho deciso di fare un tentativo perché le Filippine sembravano fuori dal contagio. Dopodiché il contagio ha iniziato a farsi serio anche al di fuori dalla Cina, ma mentre le Filippine rimanevano piuttosto stabili, l’Italia sembrava peggiorare giorno dopo giorno. La scelta di rimanere qui non è stata affatto facile: chiunque vorrebbe farsi curare nel proprio Paese, dove conosci lingua, persone e tradizioni, e a maggior ragione se io mi ammalassi vorrei farmi curare in Italia, fiore all’occhiello della sanità pubblica. Penso però che siamo arrivati a un punto in cui il ragionamento non può e non deve essere “dove voglio essere curato” ma “come faccio a evitare di contrarre il virus”, ed ecco che #iorestoacasa prende un altro significato, perché questa casa mia non è, ma è di sicuro il posto più sicuro, che mi tutela di più».
Quando era previsto il ritorno?
«A dire il vero non esisteva una data. Mi sarebbe piaciuto rientrare ad aprile per festeggiare due ricorrenze importanti, ma, vista la quarantena, non sarebbe comunque stato possibile se non dietro una videocamera, come è stato!».
Come ti sei mossa per valutare le possibilità di un rientro?
«Devo dire che l’ambasciata è molto solerte ad avvisare gli espatriati sugli eventuali voli di ritorno. Me ne hanno proposti alcuni, ma finora ho sempre rifiutato per diverse ragioni. La prima è che da Bohol, l’isoletta in cui mi trovo, bisogna raggiungere l’aeroporto internazionale di Manila per rientrare, e questo comporta una serie di spostamenti per la maggior parte non controllati: pullmini, taxi, traghetti e un volo interno. La seconda è che quando sono stata a Manila non ho avuto per nulla una buona impressione: essendo una città sempre calda ha moltissime persone che vivono per la strada, famiglie con bambini, tossicodipendenti, e Duterte ha ordinato di sparare a vista a chi viola la quarantena. So di alcuni turisti che una volta arrivati a Manila hanno saputo che non sarebbero potuti partire nella data indicata e che avrebbero dovuto attendere nuove istruzioni per quando volare. Ecco, questo sarebbe il mio incubo. Senza contare che ogni Paese in cui fai scalo rientrando ha le sue regole… Il tutto per arrivare a casa e continuare a vivere reclusa! Almeno qui c’è il mare».
C’è stato un momento in cui hai sentito forte la lontananza?
«Credo che la tecnologia oggi accorci in maniera notevole le distanze. Immagino che 6 mesi senza tecnologia mi sarebbero sembrati 12 anni, e magari sarei rientrata prima, chi lo sa. Essere da soli insegna tante cose, e la mancanza non è per forza un male: capisci quali sono le persone che vuoi avere nella tua vita nonostante tutto e quelle che invece sono solo conoscenze. In tutto questo, menzione d’onore al mio cane (tutti e due in realtà!), che, in quanto cane, non mi considera nelle videochiamate… Sa come farsi desiderare!».
Sei più preoccupata di contrarre il virus o che qualche tuo caro possa risultare positivo?
«È un discorso che ho affrontato, prima da sola poi con i miei familiari, i quali concordano con la mia decisione e, anzi, mi hanno detto che anche se fossi a casa non potrei fare nulla per un eventuale malato. Sono più preoccupata di essere il vettore che non di contrarre il virus, perché rientro nella categoria meno a rischio: non fumo, faccio sport e sono in salute… Anche se poi non si sa mai».
Dicevi di esserti voluta prendere una pausa dalla tua vita. Questo scombussolamento da coronavirus serve anche per focalizzare meglio lo scopo del tuo viaggio?
«Uno degli obiettivi che mi ero posta per questo viaggio, se di obiettivi si può parlare, era imparare a lasciar andare un po’ di controllo sulle cose, ché per quanto ce la raccontiamo è una pura illusione. Il sud est asiatico, nel suo essere sempre un po’ approssimativo, mi ha di sicuro aiutato, ma il virus ha dato il colpo finale, e credo non solo a me. Però ho capito che se non abbiamo potere su quello che ci succede, possiamo sempre scegliere come reagire, e credo sia una bella convinzione da non farsi scappare anche nella vita di tutti i giorni. Per il resto, non disdegnerò mai più alcun piatto in cui riesco a riconoscere gli ingredienti e non sottovaluterò mai più l’importanza dell’acqua potabile».