No, non canterò “Bella Ciao”. Non lo farò in piazza, non lo farò sul balcone e neppure in privato.
Non è una questione di nostalgie, tutt’altro. La storia la ho studiata e la amo, da sempre. Certo, ritengo che conoscerla sia essenziale per comprendere il presente e costruire un futuro consapevole. Tuttavia la storia è un tempo verbale al passato e quest’Italia deve comprendere l’importanza del presente; la necessità di una costruzione progettuale del futuro.
“La Storia insegna, ma non ha scolari”. Cari amici di estrazione democratica e sinistra, è una citazione di Antonio Gramsci.
L’Associazione Nazionale Partigiani continua a combattere una battaglia vecchia di settantacinque anni. Senza sosta, senza costrutto. Molto simili ai soldati fantasma giapponesi, che non accettarono la resa agli Stati Uniti e non considerarono finito il secondo conflitto mondiale. I nipponici restarono fedeli al loro codice etico del Bushido, così come i nostri partigiani al mito creato ad arte della Resistenza.
Potremmo a lungo approfondire la questione, nelle sue caleidoscopiche sfaccettature. Ne trarremmo realmente del giovamento? Indurite in posizioni irremovibili e tramandate, divenute granitiche, ci sono visioni che non intendono sentire ragioni, da entrambe le parti. In coscienza, è così probabilmente anche per quelle di chi scrive.
La Festa della Liberazione è stata istituita ufficialmente il 22 aprile del 1946 (su proposta di De Gasperi) ed è da settantaquattro anni che divide e non unisce. Perché da una fazione e dall’altra si è costruito un muro dogmatico, identificativo e sacrale della Resistenza e del Fascismo, quasi fossero religioni intoccabili e non interpretabili. Abbiamo vissuto una guerra civile odiosa, un’età del terrorismo ed abbiamo visto cadere due ere politiche repubblicane (prima e seconda), ma nulla è cambiato. Scegliamo ancora di imporci schieramenti interni su tematiche concluse ed ingiallite in libri di storia faziosi, permettendo in questo modo ad i nemici esterni di attaccarci senza trovare difese pronte ed orgogliose.
Cosa penserebbe di noi il povero Goffredo Mameli? A soli ventuno anni, il poeta e patriota genovese morì a causa di una ferita infetta procuratasi nella strenua difesa della seconda Repubblica Romana. Perì circondato della meglio gioventù dell’epoca, nell’orgoglioso ed immortale sacrificio in difesa di un sogno di libertà ed unità chiamato Italia. Era divenuto il simbolo di quella generazione di combattenti e patrioti, dopo la composizione di quella marcetta in si bemolle maggiore: “Il Canto degli Italiani”. Divenuto ufficialmente il nostro Inno Nazionale solo nel 2017, nato quando ancora il bel Paese era un sogno. Al suo interno, un insegnamento mai imparato e sempre più attuale: “… noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”.
Quale opinione avrebbe di noi, quel giovane eroe?
Oggi come non mai, siamo di fronte al dovere morale di impegnarci nella costruzione di un nuovo concetto d’Italia, nel bene e nell’interesse nostro e dei nostri figli.
Il 25 Aprile 2020 può essere una grande occasione per questa nazione incerottata. Possiamo scegliere, insieme, di dare pace e riposo a quegli scheletri protagonisti dei nostri armadi e portare il nostro sguardo oltre, verso un futuro unitario e coerente.
“Bella Ciao” è un canto popolare, nato prima della Resistenza e poi associato e divenuto motto di parte del movimento partigiano che si batteva contro il nazi-fascismo. Nel corso del tempo, però, ha dovuto subire re-interpretazioni di ogni natura. Sino a divenire mainstream grazie alla serie Netflix “La Casa di Carta” (colonna sonora di una banda di ladri), sino a divenire da identitaria a globalista. Inutile fare polemica sul passato, differente applicarla con costrutto al presente. Gli stessi che propongono con fierezza di cantare “Bella Ciao” dai loro balconi, sono coloro che approvano con enfasi i droni, la tracciabilità, la limitazione delle libertà individuali; mostrando così di non avere per nulla ereditato la cultura partigiana e ribelle. Hegel ne trarrebbe una figura de “La fenomenologia dello Spirito”: così come la virtù illuministica divenne il terrore giacobino, così “Bella Ciao” divenne l’approvazione allo stato di polizia ed alle manganellate a chi non rispetta il lock-down.
Evolviamo, nel rispetto di chi siamo e di cosa stiamo affrontando. Nella lotta strenua contro un avversario invisibile e crudele siamo divenuti preda golosa di avvoltoi europei pronti a banchettare sui nostri resti dopo averci visto spirare. Davvero vogliamo alimentare ancora una logora discussione identitaria interna, permettendo senza colpo ferire ad avvoltoi marchiati UE di fare del nostro paese territorio di conquista e spartizione economica?
Dai balconi, con l’orgoglio di un popolo mai domo, cantiamo “La Canzone del Piave”. Un pezzo che ci unisce tutti e che per un periodo divenne persino l’inno nazionale. Una canzone che rianimò i nostri soldati al fronte del primo conflitto mondiale, che scrollò la depressione della sconfitta di Caporetto e gonfiò il petto di amor patrio. Armando Diaz, a capo del nostro esercito, ne descrisse l’impatto sulle truppe definendola “più di un generale”. In queste ore buie e gravi, in questi giorni nei quali vediamo il disegno della storia tracciarsi sui libri, sia questo il motto del nostro 25 Aprile. Si ridisegni in chiave 2.0 il concetto di Resistenza e tutti gli italiani vengano a porre una trincea ideale sul Piave. “Non passa lo straniero” era imprescindibile cent’anni fa, è fondamentale anche oggi.
No, non canterò “Bella Ciao”, sono stanco di vederci divisi. Stringerò la mano sul cuore e intonerò “La canzone del Piave”, per aprire le porte del cuore ad un popolo italiano UNITO.
Paolo Radosta
Segretario Fratelli d’Italia “del Saluzzese”