Uomo concreto Filippo Mobrici, abituato ad affrontare e risolvere le inevitabili criticità che gli riserva il ruolo di presidente del Consorzio Barbera d’Asti e vini del Monferrato e di “Piemonte Land”, il super consorzio che raggruppa e coordina la comunicazione dei Consorzi di tutela dei vini piemontesi.
Presidente, con le dovute attenzioni sanitarie piano piano le attività stanno tornando a una “apparente” normalità. Quale la fotografia reale del suo comparto, quello vitivinicolo?
«Ci sono senza dubbio molte ombre e poca luce. Se analizziamo con attenzione i dati riferiti a prima del coronavirus e li paragoniamo a quelli attuali, scopriamo tristemente perdite trasversali, tra piccole, medie e grandi aziende, stimabili intorno al 70% del volume d’affari. In questo momento, inoltre è fondamentale non dimenticare che le attività sui mercati Horeca sono ferme, la ristorazione è chiusa e i “buyer” e gli importatori sono forzatamente in “stand-by”. L’unico canale che lavora con stime in crescita intorno al 6% rispetto ai periodi pre-crisi, rimane la grande distribuzione organizzata. Il rischio concreto per il vino piemontese è di non riuscire a sopportare lo stress finanziario causato dal coronavirus. A questo incerto scenario si aggiunga anche un altro fattore determinante: il turismo. I nostri paesaggi di Langa, Monferrato e Roero, patrimonio Unesco visitati in media da oltre un milione e mezzo di appassionati enoturisti, oggi risentono dell’emergenza sanitaria che inesorabilmente coinvolge non solo noi produttori vinicoli, ma tutta la filiera legata all’ospitalità: ristoranti, osterie, winebar, strutture ricettive, agriturismi, hotel, così come le stesse attività commerciali. Una squadra professionale di alto livello e determinata che è sempre stata e sono convinto tornerà ad essere, un reale valore aggiunto nel sistema turistico del nostro Piemonte».
In breve tempo?
«Non credo. Su quel fronte penso che la ripresa non sarà immediata. Le cause sono di oggettiva difficoltà di spostamento, ma temo che sarà la paura, purtroppo, a giocare un ruolo determinante nel prossimo futuro».
La stagione, metereologicamente parlando sembra non dar troppi problemi…
«Le moderate piogge che ci sono state sin ora e che ci auguriamo tornino, sono state un grande aiuto; la vegetazione è uniforme e le non elevate temperature ci aiutano anche nelle lavorazioni…».
La criticità è però rappresentata dalla manodopera…
«Verissimo. I blocchi attuati con i paesi dai quali attingevamo non sono certo un grande aiuto. Confidiamo nell’apertura di canali migratori idonei per far tornare manodopera qualificata, specializzata. In questi giorni si parla poi del ritorno degli italiani, anche con reddito di cittadinanza, che potrebbero essere impiegati in campagna. Ben vengano, ma dobbiamo non dimenticare, anzi porre come condizione la valutazione delle competenze e la formazione. La nostra non è l’agricoltura ancorata al passato, ma fortunatamente guarda avanti, a nuovi mezzi agricoli e potenzialità. Gli extracomunitari sono decenni che arrivano sulle nostre colline, li abbiamo formati e rappresentano un patrimonio la cui assenza potrebbe metterci in difficoltà. Detto questo, sono favorevole al ritorno degli italiani verso i lavori della campagna, ma non vorrei che fosse un ripiego temporaneo perché questo atteggiamento non è produttivo e soprattutto utile al mondo dell’agricoltura».
Altro tasto dolente: il tema della liquidità.
«L’azienda classica per il nostro territorio, impegnata in tutta la filiera, oggi è in grosse difficoltà. Il ciclo economico completo: vigna, cantina e commercializzazione ha sempre permesso un autosostentamento dei nostri imprenditori agricoli. Il coronavirus ha spezzato questo virtuoso ciclo, e non escludo che questo danno possa compromettere anche la vendemmia. A ciò si aggiunga che le chiusure forzate generano un’eccedenza di prodotto, da sommare a una conseguente naturale mancanza di spazio fisico ove stoccare il prodotto invenduto e quello dell’annata 2020. I numeri che arrivano dai Consorzi di tutela, per fare un esempio concreto parlano di una quantità di vini da stoccare che sfiora i 600 mila ettolitri, tra sfuso, imbottigliato e prodotto da avviare alla conservazione refrigerata. Per questo chiediamo un contributo allo stoccaggio perché ci troviamo con grandi investimenti di vino in affinamento e invecchiamento. Così abbiamo un problema di spazio, ma questi vini non li vogliamo distillare perché sono longevi e di pregio e vorremmo poterli stoccare. Non avendo più spazio in cantina proponiamo due opzioni: l’acquisto di nuovi vasi vinari per chi ha la possibilità di tenerli in azienda e affittarli. Oppure un contributo per l’acquisto o per l’affitto verso terzi».
Quale allora la soluzione pratica dal suo punto vista?
«Prima di tutto serve flessibilità. Una delle soluzioni a mio giudizio percorribili rimane la distillazione, che potrebbe andar bene per alcuni vini freschi d’annata, ma che sicuramente non risolve il problema dei vini d’affinamento, per i quali riteniamo utili altri interventi, a esempio una rimodulazione dell’attuale strumento della “vendemmia verde”, prevista dall’Ocm, legandola eventualmente a una riduzione della resa, a seconda delle Doc: in tal caso i fondi della vecchia vendemmia verde potrebbero andare a supporto della mancata resa. La distillazione si fa normalmente per il prodotto delle annate precedenti e per alcune tipologie, invece per la prossima vendemmia lo strumento più idoneo potrebbe essere una riduzione della resa/ettaro, supportata dal contributo che proviene dalla vendemmia verde o da eventuali fondi straordinari regionali o ministeriali. Per come se ne sta parlando, la distillazione può andar bene per aree produttive dove per ogni ettaro si producono 400-500 quintali di uva, per noi invece non sarebbe sostenibile in quanto si ragiona su appena 0,30-0,32 centesimi a litro. È evidente che per remunerare i nostri vini al giusto prezzo serve un intervento straordinario di Regione o Governo, visto che noi abbiamo una resa media di 90 quintali/ettaro».