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Una ferita che fa indignare

La scarcerazione di diversi boss per motivi di salute non solo offende la memoria delle vittime, ma umilia anche chi ha avuto il coraggio e la forza di denunciare

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Boss ai domiciliari, fuori dal carcere. Un’onda di sdegno e di dolore. L’opposizione accusa, il governo si difende, da una parte si urla alla complicità e dall’altra alla strumentalizzazione. «Le decisioni sulle scarcerazioni per motivi di salute», sottolinea il ministro della Giustizia, «vengono adottate in piena autonomia e indipendenza dalla magistratura», e aggiunge d’aver avviato accertamenti e di essere pronto a intervenire a livello normativo: una proposta, in particolare, punta a coinvolgere le Direzioni nazionale e distrettuali antimafia e antiterrorismo in tutte le decisioni relative ad istanze di scarcerazione di condannati per reati di mafia. Si lavora a un vincolo per riportare gli scarcerati in galera.
Non interveniamo nel dibattito politico, né ci avventuriamo in discussioni giuridiche: teniamo solo a dire, per amore di verità, che le presunte circolari governative che prevedono le scarcerazioni sono bufale e che, dalla nostra piccola prospettiva, la falla è nella legge e non nell’applicazione: non dubitiamo della buona fede dei giudici, che analizzano i casi e adottano i provvedimenti muovendosi entro previsioni codificate. Ci soffermiamo sull’aspetto umano, quello che mai dovrebbe essere scordato, e ci sentiamo feriti nell’anima, impauriti e spauriti avvolti da uno sconcerto che non ammette alibi: più forte d’ogni regola scritta, di ogni interpretazione legittima, di ogni sacrosanta autonomia.
La nostra ferita, la nostra paura, il nostro smarrimento sono quelli confidati a Repubblica da Santo, commerciante antipizzo di Palermo. «Dopo aver denunciato gli esattori, sono dovuto andare via dalla mia città», il racconto amaro, «invece il capomafia del quartiere è tornato dal carcere. Mi fa rabbia pensare che io sia stato costretto ad andare lontano per cercare un lavoro. Ho fatto tanti mestieri umili, il lavapiatti, il contadino, il bagnino, e adesso con l’emergenza coronavirus sono disoccupato. Spero che arrivi presto il risarcimento che il Giudice mi aveva assegnato».
La nostra ferita, la nostra paura, il nostro smarrimento sono però, ancor di più, quelli di Graziella. Il suo dolore lancinante e senza pace, il suo vuoto, ci appartengono. Graziella è la mamma di Claudio, assassinato a soli undici anni dai sicari della mafia: «Queste sono persone che hanno sparso sangue, ucciso bambini», le sue parole all’Espresso, «che hanno deciso le sorti della nostra terra, persone che hanno dichiarato guerra allo Stato e minacciato di uccidere magistrati e ora finiscono ai domiciliari con la possibilità di poter tirare di novo le fila del potere? Ci abbiamo messo trent’anni a ripulire la Sicilia. No, la famiglia Domino è indignata e addolorata. Il nostro cuore sanguina. È un giorno triste per chi come noi da trent’anni porta la legalità e la memoria nelle scuole».
È un giorno triste per tutti, sono giorni tristi: è comprensibile, per carità, in un momento così, che si debba scegliere di scarcerare i detenuti più anziani e quindi più vulnerabili ed esposti al virus, ma quelli mafiosi andrebbero essere protetti senza uscire dalle patrie galere: isolati e tutelati, ma dentro. Per non offendere la memoria delle vittime, per non rinfocolare il dolore dei familiari, per non restituire menti o braccia cattive alle mafia, per non umiliare chi ha trovato il coraggio e la forza di denunciare.