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Andrea Purgatori: «L’Italia non cresce se non fa i conti con il suo passato»

«Le verità giudiziarie sono incomplete, la politica aggiunge veleni. Per ricostruire il quadro serve anche un giornalismo migliore, sostenuto dagli editori. L’ultimo mistero: in Lombardia cosa è successo con l’emergenza Covid?»

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Andrea Purgatori, l’Ita­lia è il paese dei misteri irrisolti: perché?
«Per capirlo servirebbe un’analisi dei fatti. Un paese che non fa i conti con il proprio passato non cresce».

E questa analisi viene sempre rimandata?
«Ci sono state verità giudiziarie, certo. La magistratura ha fornito alcune risposte. Dalle sentenze però non emergono mai i veri responsabili, non si capiscono le dinamiche di quanto accaduto. In molti casi le sentenze non sono state contestualizzate ai periodi storici e politici e hanno lasciato molte ombre».

Un esempio?
«La strage di Capaci. Ne abbiamo appena parlato su “Atlantide” per la La7, intitolando la puntata “Fine storia mai”. Sappiamo chi furono gli esecutori, sappiamo del coinvolgimento della cupola che faceva capo a Riina. Ma non sappiamo con chi interagirono gli autori della strage, anche se è chiaro che non sia stata una “semplice”, per quanto clamorosa, azione di mafia».

Si è parlato, per esempio, di una pista americana.
«Sono elementi che ricorrono in ogni strage: i servizi deviati, le istituzioni che collaborano con gli esponenti della malavita, i collegamenti con l’estero… Come per via D’Amelio, ma anche per Bologna, Ustica, la strategia del terrore, gli attentati mafiosi a Firenze, Roma e Milano. Oppure per i singoli omicidi. Tipo il caso Pecorelli e la banda della Magliana».

Ne esce un quadro inquietante.
«L’unica cosa chiara è il coacervo di interessi, criminalità e politica. Altro esempio: Andreotti fu processato e assolto, ma i dubbi rimangono. Pensate al “mostro di Fi­renze”: ai “compagni di merende” arrestati e al “livello superiore” do­ve non si è mai indagato. O ancora: la mancata perquisizione del covo di Riina, quei 18 giorni in cui scomparvero tutti i documenti».

Recentemente Giovanni Minoli ha ricordato quando Kissinger minacciò fisicamente Aldo Mo­ro, episodio rivelato dall’interprete al seguito del nostro primo ministro…
«Moro aveva un fisico gracile e in quell’occasione annullò il resto della visita negli Usa. La moglie poi disse che per giorni lo aveva visto turbato, scosso… Ma del caso Moro potremmo parlare per ore».

Una sua considerazione?
«Mi sono sempre chiesto perché, in quegli anni in cui si sfondavano porte senza problemi, nessuno fosse mai andato a perquisire la casa di via Gradoli abitata da Moretti e dalla Balzarani, nonostante un’informazione arrivata alla polizia durante il sequestro dell’onorevole Moro».

In base a questi precedenti, viene da chiedersi perché in Italia dovremmo fidarci delle istituzioni? Anche in questa gestione del Covid-19…
«A proposito, vorrei sapere che cosa è accaduto in Lombardia. E questo senza farne una questione politica. Ma è necessario sapere come e perché ci siano stati così tanti morti. In altre regioni è andata diversamente. Ed è strano. A Roma, città di 4 milioni abitanti, i contagi sono stati davvero pochi. Eppure, quei due turisti cinesi inizialmente positivi, guariti allo Spallanzani, erano stati in albergo e avevano avuto contatti con tante persone. Però zero contagi».

Non dovrebbe essere proprio la politica a gestire tutto?
«Dovrebbe, invece diventa un pretesto per intorbidire più che fare chiarezza. Criticare la gestione lombarda dell’emergenza Covid non significa prendere posizione contro la Lega o a favore del Pd, dovremmo volare un po’ più alto».

Lo scontro politico ha accompagnato anche il rientro in Italia della giovane Silvia Romano.
«Tutti a parlare dei 4 milioni spesi. Ma a parte il fatto che non saprei dire quanto valga una vita umana e che non conosciamo la cifra spesa, quei fondi sono a disposizione della Presidenza del Consiglio e non vengono sottratti ad altre esigenze o presi da altri contributi. Sono questioni di intelligence che nulla hanno a che vedere con le fake news che sono circolate. E che hanno avvelenato il clima. Se poi mi si dice che si poteva gestire in un altro modo, mediaticamente, il ritorno di Silvia, potrei essere d’accordo. Altre nazioni pagano cifre alte per il riscatto di connazionali, ma poi mostrano solo una foto delle persone messe in salvo».

Da dove può partire il cambiamento che in Italia in molti si augurano? Dalla base delle persone comuni?
«Sì, ma questa epoca è condizionata dai social, dove ognuno si illude di poter dialogare con il Papa saltando gli intermediari. E dove chiunque racconta la propria verità. Spetta a noi che facciamo questo lavoro, rimetterci le mani».

Il punto è che i media, agli occhi della gente, hanno ormai perso credibilità: perché?
«Ho dato l’esame da professionista nel 1974 e in tanti anni non ho mai visto un giornalista censurato dall’alto. Ma ho visto tanta autocensura. Le inchieste (come quella che servirebbe per la Lombardia) non si fanno perché danno fastidio, creano problemi. Ma così emergono solo scampoli di verità e non si trova mai una visione d’insieme».

Anni fa era meglio?
«Negli anni ’60-’70, quelli della strategia della tensione, c’erano già i pistaioli e le deviazioni. Ma l’informazione stava addosso alle istituzioni. E chi decideva o rilasciava una dichiarazione, se ne prendeva la responsabilità. All’estero è ancora così».

Vede segnali di rinascita?
«Qualche giorno fa ho letto su Libero – per citare un giornale che spesso punta alla pancia più che all’inchiesta – una ricostruzione esemplare del rapporto poco chiaro tra il magistrato antimafia De Raho e il pm Palamara. Ricordo che dopo la mia intervista, l’allora sostituto procuratore Di Matteo fu estromesso proprio da De Raho. Mi mancava un pezzo per valutare meglio la questione. Ec­co, se i giornali facessero sempre questo, fornire gli elementi per poter avere un quadro, senza inutili polemiche, sarebbe perfetto. Avremmo gli strumenti per esprimere un giudizio per poi andare a votare. Sarebbe democrazia».

Quando accadrà?
«Quando gli editori faranno un’assunzione di responsabilità. Se continueranno a trattare i giornali alla stregua delle scatolette di tonno, il dna non cambierà mai. In questo contesto i giovani, che non hanno memoria, non potranno avere un confronto di crescita con colleghi più esperti e resteranno senza strumenti per cambiare le cose».

E per tornare a fare giornalismo d’inchiesta?
«Faccio sempre un esempio quando ne parlo ai corsi che tengo: se andate da un broker con 100 euro da investire, vi darà tante opzioni ma mai in campo editoriale. In questo settore il profitto non è economico. Io leggo sempre il New York Times, vedo dati, notizie, inchieste che fanno le pulci a Trump e al potere. Basano su questo la loro diffusione e il fatturato. E hanno ragione».