«Il segreto? Trovare il proprio passo»

Marco Olmo, ultramaratoneta e mito per più generazioni di atleti, stupisce anche a parole

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Nel 2009 è stato realizzato un film-documentario che racconta una sua intera stagione agonistica. Nello stesso anno, gli Ex-Otago gli hanno dedicato una canzone dal titolo “Marco corre”. Qualche settimana fa, una rivista specializzata giap­ponese ha realizzato uno speciale che in sette pagine cerca di raccontarne il lato sportivo e il lato umano. In tutto il mondo il suo nome è conosciuto e quasi venerato dagli appassionati. Ep­pure, quando si parla con Mar­co Olmo, uno dei più grandi ul­tra­maratoneti di sempre, non si ha l’impressione di avere di fronte un mostro sacro, che a qua­si settantadue anni potrebbe rifiatare dopo i grandi risultati raggiunti.

Marco, domanda di rito di questi tempi: come sta?
«Le rispondo come mio solito: in modo conforme all’età. Chia­ra­mente questo virus mi ha costretto in casa, ma tanto, corse a parte, io non sono uno che ama uscire. Di sicuro non ho rimpianto movida e aperitivi (ride, ndr)».

C’è un verbo che più di tutti la racconta: correre. Che cosa si­gnifica per lei?
«Correre per me è innanzitutto sinonimo di assuefazione: quando il corpo inizia ad abituarsi, non ne può fare a meno. È un fenomeno scientifico. Se penso alla corsa, però, mi viene in mente soprattutto quando tutto iniziò: poco oltre i 26 anni, quasi per ripiego perché non potevo permettermi la mia vera passione, il motocross, non avendo ca­pacità eccelse né grandi possibilità».

La corsa come passione. È mai stato un lavoro?
«No, una persona se corre lo fa per piacere. Il mio lavoro è sempre stato un altro: sono stato camionista, poi operaio di una ditta di escavazioni di Robilante. L’ho fatto fino alla pensione e da quando ho iniziato a correre le mie giornate erano simili tra loro: avevo il turno di lavoro dalle 6 alle 14, poi tornavo a casa e mi allenavo fino a sera, quindi cena e a letto presto, mai dopo le 22. Così ho plasmato il mio fisico, tanto che ancora oggi amo coricarmi presto e svegliarmi poco dopo l’alba».

È più duro lavorare con l’escavatore o correre nel deserto?
«Sono due sforzi a modo loro intensi, anche se, devo ammetterlo, correre nel deserto ti costringe a tirare fuori tutto. Mettiamola così: se obbligassero alcuni sportivi a fare durante le ore lavorative ciò che fanno per divertimento, probabilmente mol­­ti si sarebbero già licenziati (ride, ndr). Non a caso, credo che oggi ci siano molti sport per i quali sarebbe interessante vedere le statistiche sugli infortuni provocati dall’aver messo a rischio se stessi».

Il corpo è un elemento fondamentale per un atleta. Lei che rapporto ha con il pro­prio fisico?
«Credo che il nostro corpo sia una macchina naturale e pertanto perfetta, che ci lancia segnali quando è in difficoltà. Io ho sempre ritenuto importanti il riconoscimento di questi, penso all’aumento dell’acido lattico o alla difficoltà nella respirazione, e la capacità di saper rallentare quando necessario. In questa vita, ogni giorno cerchiamo la velocità in tutto ciò che facciamo, ma il vero segreto sta nel saper trovare il giusto passo per sé».

In tutto ciò, che ruolo ha avuto la scelta di diventare ve­getariano?
«Lo divenni ormai quasi trentatré anni fa. È la classica scelta che nasce per ragioni di salute e poi trova con il tempo anche motivazioni di coscienza. Oggi so che oltre a fare bene al mio corpo posso aiutare il mondo intero. Essere vegetariani significa comprendere che si può vivere senza uccidere un altro essere vivente, ma soprattutto che se la dieta di ognuno di noi fosse pri­va di carne, nel mondo potrebbe non esserci più la fame».

Quasi dieci anni dopo quella scelta arrivò la prima di ventidue partecipazioni alla Ma­ra­thon des Sables in Marocco. Che cosa rappresentò per lei?
«Era il 1996, avevo quasi 48 anni e tanta voglia di mettermi alla prova con una gara veramente lunga, siccome in Europa non ce ne sono molte simili. Chiusi terzo dopo 250 chilometri massacranti e da lì, forse, nacque il mito di Marco Olmo, anche se io correvo già da molti anni».

Un elemento per descrivere la durezza di quell’esperienza?
«Direi gli incubi. Dopo la gara, per alcune settimane fatichi a dormire: sogni di non farcela, di perdere le forze oppure che qualcosa va storto durante il percorso. Diciamo che dopo una Marathon des Sables ti serve un mese per ritornare te stesso da un punto di vista sportivo».

Nel deserto per più di 250 chilometri, con un caldo asfissiante e soprattutto solo. Che cosa si­gnifica per lei la solitudine, sostantivo molto in voga in queste settimane di quarantena?
«Quella che viviamo oggi non è solitudine, ma incapacità di es­sere in pace con se stessi. Ricordo una vacanza negli Usa con mia moglie Renata di ormai molti anni fa: era un viaggio organizzato e ricordo che co­nobbi una coppia in luna di miele. Facemmo amicizia, ma rimasi impressionato dal fatto che ogni sera marito e moglie in­vece di trovare tranquillità cercavano in ogni modo di poter cenare con altre persone. Credo fosse l’emblema di una società che ha perso il valore delle cose semplici e dello stare in famiglia».

È così anche nella corsa?
«Molti per correre hanno bisogno di essere in tre o quattro, ma lo trovo assurdo. La corsa è uno sport individuale, da vivere come occasione per smaltire e liberare la propria mente dalle ansie quotidiane».

Nasce anche da queste motivazioni la scelta di non allontanarsi mai dalla “sua” Robilante?
«Io sono figlio di contadini, che avevano poche vacche e vivevano in semplicità, in un tempo in cui la montagna si stava spopolando perché la grande industria aveva bisogno di braccia e offriva in cambio guadagni certi e possibilità di allontanarsi dalla miseria. Ecco perché il legame con Robilante è stato anche una sorta di rivalsa rispetto a quei tempi. Nella mia vita ho visto tante terre stupende, tanto che il mio sogno nel cassetto era sempre stato quello di andarmene in Nord Africa con mia moglie dopo la pensione. Perché non è mai accaduto? Perché ognuno di noi ha delle radici: io le ho a Robilante, in una casa costruita su misura per me. E non la lascerei mai».

Oggi quel figlio di contadini è un mito per molti. Cosa si pro­va?
«Quando ci penso, mi viene in mente la Coppa Valle Grana del 1977, una corsa a tappe che ve­deva al via molti grandi corridori. L’ultima frazione era la Cuneo-Ca­stel­magno, che destava sempre grande interesse. Io chiusi at­torno al 40esimo posto, ma ri­cordo bene la venerazione con cui guardavo Martinengo, vincitore di quell’edizione. Qualche tem­po dopo ottenni il mio primo successo a San Da­miano Macra e sa che le dico? Mi accorsi che in me nulla era cambiato. Ecco perché ancora oggi cerco di essere me stesso con gli appassionati e di farmi sempre trovare disponibile: essere un esempio è una re­sponsabilità importante, che va portata con grande attenzione».