Non sempre la vita va per il verso giusto. Certe volte stravolge tutto e in un lampo riesce ad annebbiare la vista oppure a renderla più limpida che mai. La storia di Martina Ferrero, fisioterapista trentenne di Cardè, da un anno residente a Pinerolo, ne è una chiara testimonianza; di quelle che segnano e insegnano. IDEA ha fatto una lunga chiacchierata con lei, in passato alle prese con una bestia sconosciuta, o forse troppo conosciuta per non destare angoscia.
Martina, come si è accorta che qualcosa non andava?
«Era il 2015, avevo 25 anni. Con un gruppo di amici, totalmente inesperti ma ricchi di energia, ci eravamo dati l’obiettivo di raggiungere il Rifugio Ghincia Pastour in notturna, con le ciaspole ai piedi e un itinerario ricostruito grazie a qualche testimonianza qua e là. Scarponi nello zaino e sci sulle spalle: saremmo scesi a valle dalle piste di sci di Crissolo il giorno dopo. La cena era prenotata: entusiasmo da vendere, il bombardino ci rallegrava. I metri di dislivello erano relativamente pochi, a pensarci ora, ma la ricordo come una fatica immane. Il peso dello zaino contava, certo, e anche quel ventaccio fetente. Di stelle, poi, nemmeno un cenno. Durante quella scalata sentivo che in me c’era qualcosa di strano, che qualcosa non andava nel mio corpo. C’erano le gambe di pietra e la tosse ormai frequente quanto il respiro. Quella “avventura epica” tra amici fu l’anticipo di un’impresa più lenta e più grande».
Come ha appreso la notizia della sua malattia?
«Ero già grande, ma quel giorno di primavera c’era la mia mamma con me. Un medico dall’accento ligure lo disse: «Linfoma di Hodgkin. Le terapie sono efficaci, i giovani rispondono bene». Ho pianto. Era la prima volta che piangevo di fronte a uno sconosciuto, la mia riservatezza era finita chissà dove. E in quei pochi secondi di consapevolezza il mio animo è cresciuto. Sono iniziati per me mesi che non dimenticherò mai: sei cicli di chemioterapia che mi hanno rubato più di metà anno. La malattia per me era un ladro: mi stava sottraendo il tempo, quello che i miei colleghi e amici usavano per lavorare, crescere e giocare. Mi sentivo intrappolata da una forza superiore, inerme».
In che modo ha reagito nella sua quotidianità?
«Ho cercato di proseguire il mio lavoro per quanto potessi, poi piano piano il mio corpo mi ha chiesto di mollare. Ai tempi seguivo anche una squadra di calcio durante gli allenamenti: mi riposavo tutto il giorno per riuscire a stare con i ragazzi un paio d’ore, tornando a casa sfinita. Ma era essenziale per me riuscire a fare qualcosa, a continuare i miei progetti, mantenendo un legame con la vita normale».
Chi le è stato vicino in quei momenti così duri?
«Sono tante le persone che mi hanno aiutato quando mi trovavo in una bolla “spigolosa” e a cui devo un’infinità di amore: la piccola Alisea (la nipote nata durante il periodo delle terapie, ndr), la mia famiglia, il mio ragazzo e gli amici veri. Mi sono stati accanto nelle sere d’estate, cenando insieme e chiacchierando del bello, del brutto, del dolore, del gossip e anche della rabbia. Ma anche quando si trattava di tagliare i capelli sempre più corti, scegliere i cappellini , snobbare le parrucche. Sempre con il sorriso e l’ironia. Sono riusciti a lasciarmi dei bei ricordi nel cuore, a dimenticare la nausea e la magrezza del mio corpo pallido. Forse non mi rendevo conto di quello che mi stava succedendo, loro sì. Non mi importava del mio aspetto esteriore, allo specchio vedevo me stessa e basta, neanche così brutta. Ho imparato molto di me in quei momenti».
Come ha ritrovato la normalità?
«La fase di recupero è stata lunga e durissima. Bisognava ricominciare tutto da capo: ricostruire il mio corpo, il mio lavoro, le mie emozioni. C’era una vittoria da festeggiare, ma allo stesso tempo iniziava una nuova battaglia da combattere. Poco per volta tutti i mattoncini si sono rimessi a posto e ormai sono tornata da tempo nel pieno delle mie possibilità. Dopo circa un anno dalla mia guarigione, mi sono accinta a intraprendere una sfida che mi ero prefissata già prima della malattia, e che da sempre mi affascinava: il Monviso. Questa volta avevo un motivo in più per scalare quella vetta, un senso di rinascita, da vivere con la consapevolezza che per riuscire nelle proprie imprese ci vuole pazienza e perseveranza. Non avevo particolari paure, perché sapevo di avere la condizione fisica idonea per affrontare una sfida del genere. Mi sono allenata e ho allenato il mio fisico poco per volta, per far si che riprendesse la normalità, ho faticato, sudato, e alla fine l’ho conquistata: quella cima che tante volte ho visto in documentari era davanti a me. E una volta raggiunta la vetta del Monviso ho ringraziato Dio per la bellezza della mia vita».
Come procede ad oggi?
«Sto bene, ho il mio studio e lavoro tanto. Sono felice. Il tempo che mi è stato negato prima, ora mi viene restituito con valore doppio».