State a casa: un consiglio, poi un obbligo, infine un invito alla responsabilità. E in tutte le declinazioni, un monito consolatorio. Perché quando siamo smarriti e impauriti, quando cerchiamo protezione, solo a casa ci sentiamo davvero al sicuro. Costretti, certo. Spogliati dei nostri riti. Privati dei nostri affetti e stravolti nella quotidianità.
Circondati, però, dalle nostre cose, specchiati dentro volti familiari, felici di riscoprire sorrisi ch’erano diventati sfuggenti. Il piacere di ascoltare, di non rincorrere più il tempo, di sfogliare vecchie foto e buoni libri, di accarezzare emozioni prima divorate dai ritmi di giornate frenetiche. Eppure, non sempre è così.
A volte la casa è prigione e inferno, sofferenza e dolore, sopportazione e vessazione. Umiliazione. Morte. E in tempi di coronavirus e “lockdown”, comunque di restrizioni, sfuggire diventa impossibile e gli aguzzini si trasformano in presenze costanti. E i pericoli crescono come il terrore, come le lacrime versate in silenzio di notte.
Così, abbiamo pensato di non dimenticare le donne uccise in famiglia in questi giorni particolari di strade deserte e di silenzi irreali: assorbiti dalle cronache della pandemia, nemmeno le loro urla hanno rotto quel silenzio, ci sembra giusto dedicare un pensiero e un ricordo, posate un fiore virtuale come gli abbracci di questi tempi. Abbracci che loro non hanno mai avuto. Donne assassinate da mariti, compagni o figli. Da ex incapaci di accettare un addio o da spasimanti incapaci di accettare un no. Una spirale agghiacciante di violenza domestica, di femminicidi consumati in qualche caso davanti agli occhi di piccoli innocenti.
In tutti i lembi della penisola e dentro ogni categoria sociale. Larissa a Camaiore e Rossella nel brindisino: accoltellate dai figli. Barbara vicino Bolzano: pugnalata da un corteggiatore diventato stalker che aveva già denunciato. Bruna a due passi da Torino e Irma a Firenze: ammazzate dal marito. Lorena nel messinese, Gina a Rho e Marisa vicino Cagliari: uccise dai compagni. Come Viviana, a Bergamo, finita in coma per le botte, che s’è arresa dopo una settimana di speranza e di preghiera. L’ultima, Susy, nel bresciano, sgozzata davanti ai tre figli, il più piccolo disabile, alla vigilia della separazione: quando la maggiore è uscita di casa, ha mostrato il sangue sul vestito al vicino accorso dopo aver sentito grida d’aiuto, e ha detto, terrorizzata, che era il sangue della mamma.
Tragedie che rappresentano la punta di un iceberg: 117 volte, durante la quarantena, le forze dell’ordine sono intervenute per casi di violenza domestica e nel 90% le vittime erano donne. Dietro gli omicidi, quelli tentati: ben sei. E poi maltrattamenti, lesioni, minacce: gli unici reati aumentati mentre tutti gli altri erano in calo. E molte donne, per paura o vergogna, per impossibilità o difficoltà a muoversi, non hanno denunciato.
Aiutiamole, oggi più che mai. Non ignoriamo urla dentro appartamenti vicini ai nostri o lividi attorno a occhi tristi, non giriamoci dall’altra parte. Quanto accaduto conferma che «femminicidi e reati di genere», è un’analisi di Amnesty International, «sono fenomeni strutturali e non occasionali che hanno solo trovato una situazione più favorevole». Aiutiamo le donne vittime a fuggire e a denunciare. Costruiamo per loro rifugi sicuri. E aiutiamo, in generale, tutte le donne contribuendo a estirpare una mentalità maschilista che, ancora oggi, le vuole subordinate nella relazione e porta spesso, troppo spesso, a un possesso malato o alla ribellione violenta davanti a semplici scelte di vita.