Dopo aver concluso le riprese di The Big Other, l’ultimo film al quale ha partecipato, e dopo l’attività di doppiaggio per “In the wine”, Pino Ammendola ha fatto appena in tempo ad assaporare il successo del suo progetto “Anima” prima di rispettare l’isolamento da coronavirus. Suo malgrado: l’emergenza sanitaria ha disegnato una “realtà” che per molti aspetti è all’opposto della sua filosofia di vita. E non solo perché il cosiddetto lockdown gli abbia impedito di godersi il giro in barca che di solito si concedeva proprio in primavera. «Se non altro – ci dice – perché ricordo un’altra emergenza come questa, anzi peggiore di questa, vissuta però in tutt’altro modo. Parlo del Colera. L’ho conosciuta quando avevo vent’anni e a Napoli si facevano i conti con un’epidemia molto più violenta, ma senza dover rinunciare ad alcuna libertà. Non so se quanto accaduto in questi mesi giustificasse il blocco totale che tutti noi abbiamo subito. Non ci sono dati evidenti a dimostrarlo. I numeri che sono circolati hanno creato parecchia confusione e hanno lasciato un grande senso di disagio».
Ammendola dice di aver passato molto tempo a scrivere, nei giorni di chiusura. «Ma senza riuscire mai a fare qualcosa di veramente creativo. La creatività in circostanze come questa diventa un’altra cosa. Che non mi piace». Un po’ come il teatro, una delle sue passioni: qualcuno ha suggerito di trasferire gli eventi teatrali in tv. Ma anche in questo caso, si tratterebbe di un’altra cosa: «Il teatro è vivo, senza pubblico non lo è. Figuriamoci che per me il discorso vale anche per il cinema. Non amo le sale piccole, sono rimasto legato al ricordo delle sale fumose di un po’ di anni fa, strapiene, anche quelle da 1500 spettatori. Andare a vedere un film era un rito collettivo, si stava perfino in piedi, aveva tutta un’altra valenza». Per il dopo coronavirus servirebbero aiuti che al momento non sono arrivati. «Al governo – sorride amaramente Ammendola – si sono dimenticati dello spettacolo». E torna il tema di un contagio che è nemico, tra le altre cose, di molte manifestazioni d’umanità: «Quelle cose di cui è fatta la recitazione: toccarsi, abbracciarsi. Non sono sciocchezze, sono questioni importanti, anche nella vita. L’altro giorno ero in coda e ho fatto notare a una signora davanti a me che le era caduto un oggetto dalla tasca, lei mi ha guardato con diffidenza, quasi non si chinava neanche a raccoglierlo… C’è paura di tutto». Per Ammendola il virus sta accelerando un cambiamento epocale anche dal punto di vista dei comportamenti: «Abbiamo visto che più si è ricchi e più ci si chiude nelle proprie case sicure, dove non manca niente: tutto il contrario di quello che accadeva un tempo, quando ci si stringeva per condividere un pezzo di pane. Aggiungi un posto a tavola… Questa epidemia ha portato una perdita d’umanità».
Per quanto riguarda la gestione sanitaria del virus, Ammendola ha un dubbio comune a molti: «Se all’inizio ci fosse stata più attenzione, se i malati fossero stati separati dai sani… avremmo avuto gli stessi dati?». Ma sono questioni politiche. Meglio tornare al cinema: «Cambierà molto. Già adesso la tv sta portando gli ultimi decisivi attacchi. E ai giovani non interessa molto. Ma il cinema, come dicevo, ha un potere empatico difficile da sostituire. Speriamo in nuove tecnologie che sappiano rilanciarlo». A proposito: e il doppiaggio, dove va, sempre verso la tv? «Tutto ciò che va in tv perde in qualità. La tv è massificante, trasforma in poltiglia e abbassa il livello di qualsiasi prodotto». Anche qui, la nostalgia è inevitabile: «La tv in bianco e nero era realizzata da grandi professionisti. Nulla era lasciato al caso. Io ero agli inizi, magari dovevo fare solo una battuta ma ci lavoravo quindici giorni… Si discuteva, si ragionava, ci si confrontava per ogni cosa. Le inquadrature erano sempre ricercate, si sperimentava. Oggi in tv le inquadrature sono solo primi piani e gli stacchi».
Pino Ammendola ha doppiato personaggi famosi ma anche divertenti come Jerry Lewis, oppure come il Gatto Silvestro dei cartoni animati. Doppiare è divertente? «Mah, era faticoso. Sei chiuso in un box, al buio. Oggi poi sei solo, fai la tua traccia senza colleghi al fianco. E per i cartoni devi sforzare la voce».
E allora qual è la bellezza di essere attore? «Il film è un tempo sospeso. Giornate in cui vivi solo in quella dimensione, a parte la sera quando stacchi. E sei in posti spesso meravigliosi. Come quando vai in tournée, viaggi e incontri persone. Quanto mi manca».
Il personaggio che ha conosciuto nell’ambiente che non dimenticherà? «Tra tutti, Bud Spencer. Un armadio, un uomo possente che aveva un animo gentile, genuino, davvero una bella persona. Tra i registi direi Dino Risi, grande fascino, intelligente, ironico. Poi anche Gassman ovviamente e Albertazzi, uno che è rimasto sempre giovane nel suo approccio alla vita e alla professione». L’attività di doppiatore è però quella che ha permesso ad Ammendola di conoscere miti come Stanley Kubrick: «In Full Metal Jacket avevo dato la voce italiana a Sal Lopez. Il regista era venuto negli studi di Roma per controllare il lavoro. In seguito, ricordandosi di me, mi chiamò a Londra perché aveva bisogno di un personaggio napoletano che io potevo interpretare al meglio con il mio accento. Fu un’esperienza bellissima». Un po’ come gli esordi, con Pierpaolo Pasolini: «Avevo 19 anni, mi coinvolse nel Decameron per una piccola parte. Fu il mio esordio. Nelle pause cercavo di avvicinarlo per parlargli, era un personaggio magnetico. Leggevo sempre i suoi saggi sul Corriere della Sera. Un giorno al bar di Cinecittà cercavo una scusa per parlargli ma non mi filò di striscio… Parlava solo di calcio con gli inservienti». Il ricordo più bizzarro? «Quando ho doppiato per gli spot Tim il cane Ettore, ricordate? Parlava in napoletano. Per anni mi chiamavano le radio di Napoli chiedendomi di commentare questioni calcistiche con i versi di Ettore… wooooff!».