Saper intrattenere con gusto è una capacità che Gianni Farinetti dimostra di possedere sia quando veste i panni del romanziere sia quandosi propone come interlocutore.
L’intervista telefonica è fissata per il tardo pomeriggio. La risposta è pronta e gentile: «Posso richiamarla tra dieci minuti che sto finendo di fare la spesa?». Una dozzina di minuti dopo, un WhatsApp: «Ancora qualche minuto, spesa lenta». Fatta nell’unico negozio di alimentari del paese (“gestito da una signora molto simpatica”, aggiungerà poi). Perché da due anni, il torinese vive tra Prunetto e Gorzegno in alta Langa, con un cane e una gatta che sono la sua famiglia e che assistono alla telefonata senza disturbare, perché, dice Farinetti: «Sanno che fino a quando non sentono Mentana e Gruber non è ora di mangiare…».
Il lasso di tempo che separa dall’ora della cena lo occupa chiacchierando con IDEA.
Lei ha studiato architettura. In che modo la sua formazione è tornata utile per scrivere?
«Ho studiato architettura, ma non ho terminato gli studi, poi ho lavorato per molto tempo come “copywriter” e intanto facevo il regista di documentari: tutte esperienze che sono confluite nella scrittura. La pubblicità è stata una bella palestra, perché insegna la sintesi che è importante anche nei romanzi. L’architettura è un amore che prosegue tutt’ora, come quello per la storia dell’arte: anche quelle servono. Chi scrive fa un lavoro artigianale. Esattamente come per una casa o un tavolo, ciò che produci scrivendo deve stare in piedi. E poi bisogna illuminare il tutto con un po’ di talento».
Definire i suoi libri dei gialli mi pare riduttivo, non crede?
«C’è una definizione che mi piace molto e mi pare si addica ai miei libri che è: “romanzi con delitto”. “Giallista” è un termine che non mi piace, un po’ come “apericena”, un termine che esiste solo in italiano. Per decenni il giallo in Italia è stato considerato un genere di serie B; intrattenimento puro, il libro che mettevi in tasca prendendo il treno, per avere un passatempo. Poi sono arrivati Giorgio Scerbanenco e “Fruttero & Lucentini”, che hanno iniziato a dare dignità letteraria al genere. Oggi siamo in una strana situazione per cui il giallo è il genere che più funziona e viene declinato in mille modi. La grande scrittrice Patricia Highsmith diceva che per un autore il giallo è una grande opportunità, perché all’interno di una cornice leggera di intrattenimento puro, può metterci cosa vuole».
Quanto contano i luoghi per i suoi romanzi?
«I luoghi sono fondamentali: non posso immaginare di scrivere un romanzo senza pensare a dove ambientarlo. Non solo: è l’ambientazione che sovente fa la storia. “L’isola che brucia”, per esempio, si svolge a Stromboli, un posto che conosco bene, e sarebbe stato inimmaginabile un luogo diverso. Io addirittura spero che i luoghi diventino loro stessi personaggi. L’alta Langa, che ho scelto anche per vivere e che studio, è il luogo in cui ho ambientato e scritto i miei ultimi tre romanzi: “Rebus di mezza estate”, “Il ballo degli amanti perduti” e “La bella sconosciuta”».
Vale la regola che l’ultimo libro scritto è sempre il più bello?
«“La bella sconosciuta” è un libro che amo molto, perché ha una storia particolare. I primi spunti risalgono a 15 anni fa, proprio durante un soggiorno in alta Langa. Come capita spesso, però, la trama non quagliava. Ma una storia, se è buona, ha bisogno di crescere e prendere una sua forma. Ho ripreso in mano gli appunti più volte nel corso degli anni, sempre senza risultati, poi l’anno scorso il romanzo è fiorito improvvisamente e in 40 giorni l’ho portato a termine».
Molti dei personaggi dei suoi libri sembrano perfetti per un film o una serie tv. Lo stesso si può dire per le ambientazioni. Non ci ha mai fatto un pensiero?
«Io sì, però entriamo in un campo altro. Un libro lo scrivi da solo, mentre il cinema e la “fiction” sono mondi diversi, complessi ed economicamente impegnativi. Quasi tutti i miei libri sono stati opzionati, per uno di essi, “Prima di morire” le trattative erano anche molto avanzate, ma non è successo. Se qualche regista è interessato comunque, mi trova in alta Langa (ride, ndr)».
Siamo a fine intervista e ancora si è parlato di Covid-19… Che traccia lascerà il coronavirus nella letteratura che verrà?
«Non lo so, però è chiaro che viviamo un momento spartiacque, che ha una grande incidenza anche sulla vita di chi, come me, vive in un luogo privilegiato. In questi mesi è molto difficile concentrarsi, faccio fatica a saltare la parte della realtà e vivere una vita parallela, perché ragiono molto su quello che sta succedendo, sul perché, che ancora non sappiamo bene, e sul come. La cosa che mi colpisce molto, accanto ovviamente allo strazio per le tante persone morte, è constatare come la natura viva parallelamente a noi, facendoci capire che siamo davvero delle formichine. Crediamo di avere tutto sotto controllo, ma non è così. La natura si sta riprendendo degli spazi. Tutto questo, ovviamente, non è consolatorio».
Avrei voluto preparare una domanda intelligente per finire, ma non me ne sono venute… Come possiamo concludere?
«Al limite ne faccia una non intelligente…»
Ci provo. Se dovesse scegliere tra scrivere un libro bellissimo che non legge nessuno e un libro “brutto brutto”, che vince il Premio Strega, cosa sceglierebbe?
«Mi ha servito la risposta su un piatto d’argento: non potrei mai scrivere un libro “brutto brutto”» (ride di gusto, ndr).