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I possibili nuovi scenari post covid

Quale il ruolo della cultura e delle fondazioni? Giovanni Quaglia: «Le prospettive dell’economia italiana a medio termine sono contraddistinte da un rilevante grado di incertezza» Giuseppe Tardivo: «Abbiamo bisogno di un’università capace di stare sul mercato, che sappia rispondere alle esigenze socio-economiche»

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La crisi in atto sta producendo un cambiamento improvviso e radicale nelle abitudini e negli stili di vita degli italiani, con una drastica riduzione di ogni forma di socialità e rilevanti mutamenti nella tenuta e nell’organizzazione del lavoro e della formazione. Sta creando un nuovo modo di essere e di operare non solo nell’economia e nelle correlate attività finanziarie, ma anche nell’approccio culturale e nella formazione del “cittadino europeo”.

Per approfondire queste tematiche abbiamo intervistato il professor Giovanni Quaglia, Presi­dente della Fondazione Crt e au­to­revole esponente del mondo economico nazionale e il professor Giuseppe Tardivo, professore onorario di Economia e ge­stio­ne delle imprese presso l’Uni­versità di Torino, tra i più illustri accademici italiani nel settore del “Business Management”.

Presidente Quaglia, in numerosi interventi presso prestigiose istituzioni nazionali ed europee lei ha sottolineato l’importanza per le fondazioni di origine bancaria di “saper ascoltare” e di interpretare le esigenze della collettività e del territorio. Dal suo particolare e, se mi consente, privilegiato punto di osservazione come vede lo scenario italiano dopo la pandemia di coronavirus Covid-19?
«Le prospettive dell’economia italiana a medio termine sono ancora contraddistinte da un rilevante grado di incertezza, connesso alle dinamiche di diffusione del coronavirus.

Questo fatto determina in misura sempre più accentuata una riduzione dei piani di investimento delle imprese e una minor propensione al consumo da parte delle famiglie. Appaiono possibili alcune considerazioni. L’impatto della crisi sull’economia italiana sarà severissimo, decisamente superiore a quello della recessione del 2009; l’impatto settoriale della crisi sarà molto selettivo fra settori, territori e categorie di lavoratori.

Nelle regioni economicamente più forti la ripresa sarà trainata dalle “performance” del settore manifatturiero e dall’export, nelle più deboli dal terziario. Ritengo saranno maggiormente colpite le fasce di lavoratori più deboli: i giovani, i lavoratori a termine, quelli stagionali. Di conseguenza tenderanno a crescere le disuguaglianze sociali. Nel medio periodo occorrerà pensare a politiche economiche e sociali di lungo respiro: il contenimento del debito pubblico, la definizione di politiche fiscali, la promozione di azioni tendenti a ridurre le disuguaglianze sociali e territoriali, la realizzazione di una consistente capacità di innovazione, il rafforzamento della competitività.

Sarà essenziale far partire una serie di investimenti in infrastrutture, materiali e non, in modo da rigenerare un’economia che non sarà più quella che abbiamo conosciuto, e avviare un serio processo di semplificazione, eliminando i troppi passaggi burocratici che rischiano di vanificare i vari provvedimenti. Uscire dalla fase di emergenza non è quindi un’opzione, ma una necessità».

Professor Tardivo, nel contesto delineato dal Presidente Quaglia il Covid-19 ha messo in luce anche la fragilità del sistema culturale. Come sta reagendo il comparto dell’istruzione italiano e quali sono le prospettive per il futuro? Emerge una “nuova alba” per l’università?
«La sospensione delle lezioni, “in presenza” e il rallentamento della ricerca nelle scuole e nelle università a causa del Covid-19 costituisce allo stesso tempo un problema e un’opportunità per la crescita di una nuova cultura che anticipa lo scenario futuro di riferimento: la cultura digitale.

L’università, in particolare, ha “rivoluzionato” la didattica e molti docenti hanno trasformato l’utilità teorica in utilità pratica. Stiamo assistendo a una rilevante trasformazione nell’uso dei social: si cerca in rete l’informazione e lo “smart working” sta diventando la normalità.

In questo scenario, il sapere scientifico e la sua applicazione tecnologica diventeranno una componente essenziale nella percezione della realtà. La sperimentazione di massa di un nuovo modo di comunicare attraverso piattaforme digitali potrà farci superare la naturale soglia di resistenza all’innovazione e promuovere e sviluppare le nostre capacità conoscitive. Per fare questo, però, occorre superare le incertezze attivando risorse mentali, umane, sociali ed economiche volte a favorire la creazione di una “digital strategy” secondo un piano di sviluppo razionale».

Dovremo quindi ripensare l’università?
«Come ha sottolineato Andrea Pitasi, presidente della World complexity science academy, il cambiamento tecnologico è anche cambiamento organizzativo e di mentalità e le tecnologie digitali applicate alla formazione in forma “blended” (miscelata) o in forma totalmente digitale riconfigurano la didattica stessa, per cui non si tratta di colmare lacune, quanto piuttosto di cambiare approccio, metodologie, forma culturale e il processo di comunicazione.

In questo scenario abbiamo bisogno di atenei più “snelli”, con meno vincoli e con regole chiare e orientate al futuro. Abbiamo bisogno di una università capace di stare sul mercato, che sappia rispondere alle esigenze del sistema socio-economico di riferimento in cui anche le fasce più deboli devono trovare una loro realizzazione. Per concretizzare tutto questo l’università dovrà disporre di adeguate risorse finanziarie che facilitino la realizzazione di programmi di ricerca pluriennali e sviluppare la capacità di “fare sistema”, promuovendo la collaborazione in ottica sovranazionale ed europea».

Presidente Quaglia, il professor Tardivo ha sottolineato il fatto che il nuovo scenario competitivo post Covid cambierà profondamente l’università e porrà nuovi interrogativi sulla formazione culturale delle giovani generazioni. La pandemia cambierà anche il modo di essere, il modo di pensare, il modo di agire, in altre parole la “filosofia gestionale” delle fondazioni?
«Le fondazioni di origine bancaria si sono poste storicamente come “sentieri di vita e di azione sociale” e sono un fattore fondamentale dello sviluppo economico. La natura di enti no profit, dotati di cospicui patrimoni, consente alle fondazioni di origine bancaria di agire come innovatori non solo nell’ambito dello sviluppo locale ma anche nel mondo del terzo settore.

Esse sentono sempre più il bisogno di orientarsi al perseguimento del “bene comune” e all’ascolto delle necessità del territorio. La grande sfida per gli anni a venire è quella di affiancare al “welfare” di primo livello, basato su risorse pubbliche, un secondo “welfare”, di tipo comunitario, basato su un mix di finanziamenti e di investimenti social, forniti da una pluralità di attori economici collegati in rete con un forte radicamento territoriale.

In quest’ottica, il profilo delle fon-dazioni di origine bancaria è in costante evoluzione. Dalla tradizionale e ormai ampiamente superata erogazione di “finanziamenti a pioggia” le fondazioni bancarie ricoprono oggi sempre più il ruolo di “agente di sviluppo”, con la messa in campo non solo di risorse economiche ma anche di una vasta gamma di competenze tecniche, relazionali, finanziarie e progettuali, assieme a quello di “tessitrici di reti” con le istituzioni, il mondo del no profit e del terzo settore.

Assumono così sempre più una responsabilità che non è solo erogativa, ma strategica, affiancando le istituzioni pubbliche nella promozione del benessere sociale e realizzando l’aspirazione di essere percepite come “una comunità di persone impegnate per gli altri”, nella convinzione di poter contribuire a un nuovo “patto della solidarietà” tra pubblico, “business community” e società civile aggregata per ricostruire il futuro».