Un uomo di colore, inerme a terra, ammanettato e senz’armi, soffocato da un poliziotto che gli schiaccia il ginocchio sul collo. «Non riesco a respirare, ti prego…», le sue ultime parole: un sussurro disperato, diventato silenzio. L’immagine ha fatto il giro del mondo, suscitando indignazione ovunque, e ha scatenato la rabbia della gente afroamericana di Minneapolis, sollevato un’onda di protesta e di violenza anche in altre città americane. Soprattutto, ha riacceso il dibattito sul razzismo, sui soprusi che troppe volte chi ha la pelle scura subisce negli States dalle forze dell’ordine.
Si è documentato il fatto, assurdo e imperdonabile. Si sono raccontate le reazioni: quelle di grandi personaggi pubblici e di gente minuta, quelle ingiustificabili delle piazze in fiamme e dei saccheggi. Si sono rispolverati i precedenti. Non ci torniamo, perciò: vogliamo piuttosto riecheggiare le parole rilasciate a Repubblica da Percival Everett, uno dei più grandi scrittori afroamericani di oggi: «George ha sofferto atrocemente e senza motivo», ha detto, «sei anni prima era toccato a Eric. Continua a succedere. Qui se sei nero sai che il prossimo puoi essere tu».
Everett confida d’aver parlato ai figli adolescenti, Henry e Miles: ha detto loro che «non importa quanto sei educato o chi è tuo padre: se sei un ragazzo afroamericano troverai sempre chi ti considererà un pericolo». Ha spiegato loro, e lo definisce straziante, che se fermati devono perfino lasciarsi umiliare ma non dare pretesti per fare del male, ha ragionato che se alcuni poliziotti (non tutti) agiscono così è perché si sentono impuniti, ha osservato che i casi di fermi senza ragione e maltrattamenti, al di là delle tragedie, sono quotidiani. E ha ricordato il processo farsa di Los Angeles, dopo un’altra morte ingiusta e un’altra rivolta di piazza, quando i colpevoli vennero assolti da una giuria che era tutta composta di bianchi. «Scagionati. Succede ogni volta», la sua riflessione. «Ecco perché la gente chiede giustizia con furia: sa che non l’avrà. Se quel ragazzo fosse stato bianco non sarebbe accaduto, è così e lo sappiamo tutti. Ai miei figli ho detto che c’è gente, lì fuori, che non guarda chi si è realmente ma vede solo il colore della pelle».
Parole che fanno male, quanto le immagini: parole di chi si batte ogni giorno per il rispetto delle persone e per sradicare il razzismo, e si sente avvolto, in momenti così, da una sensazione d’impotenza, non solo di dolore.
Nelle stesse ore ci ha raggiunti un’altra notizia che sentiamo di legare alla sua morte, apparentemente lontana per storia e geografia e invece confinante, sovrapposta. È quella dei manager tedeschi della Tyssen-krupp che chiedono la semilibertà: erano stati condannati a cinque anni per per la morte di sette operai nella fabbrica di Torino nel 2007.
Le indagini accertarono che in vista della dismissione erano state trascurate sicurezza e manutenzione, il profitto anteposto alla tutela del lavoro costato sette vite umane. I familiari hanno impiegato dodici anni per vedere in carcere i responsabili morali, e quando pensavano di aver avuto un minimo di giustizia, solo un minimo perché i vertici sono sfuggiti, si trovano avvolti da una sensazione di impotenza, non solo di dolore, di affronto e di ingiustizia. Come Everett e come gli amici di George. Come chi non conosceva George, ma ha pianto per lui.