Più Bartoletti (e idee “alla Bartoletti”) per la tv e il giornalismo italiani. Dalla chiacchierata domenicale (di mezz’ora!) avuta con il conosciutissimo giornalista originario di Forlì emerge come l’inventore di “Quelli che il calcio” abbia, cosa che peraltro si intuisce già dai suoi articoli e dalle sue trasmissioni, un talento speciale; una “stoffa” che gli consente di non essere mai banale e di fare breccia nel cuore di lettori e ascoltatori a cui, con ironia pungente, trasmette l’essenza più autentica dello sport o, a seconda del contesto, della musica, l’altra sua grande “specialità”. Tutto ciò quasi nascondendosi, con l’umiltà tipica dei campioni, tra quei due “baffoni” che lo hanno reso quasi come il “direttore della porta accanto”.
Bartoletti, lei si definisce giornalista, conduttore o artista?
«Nasco e sono giornalista, in tutte le cose che faccio. Forse un po’ artista. In ogni caso, tutte le altre attività che ho svolto sono “derive” che non avrei mai immaginato. Conduttore, lo sono diventato, senza comunque mai dimenticare le mie origini».
Immaginava che sarebbe diventato giornalista?
«Sinceramente, no. A un certo punto, però, compresi che la mia vita era sempre stata intrecciata al mondo del giornalismo: da una parte nutrivo una grande passione nell’apprendere le conoscenze sportive e musicali, dall’altra mi affascinava la capacità di divulgarle che possedevano alcuni grandi giornalisti, a partire da Gianni Brera».
Ricorda il suo primo articolo?
«Desiderando tentare l’avventura giornalistica andai a bussare alla porta della redazione di Forlì del Resto del Carlino. Mi presero, anche se non so per quale motivo. Mi incaricarono, e siamo nel 1968, di realizzare alcuni articoli di cronaca su calcio e pallacanestro di provincia.
Quegli articoli mi sono ricapitati tra le mani quando è mancata mia madre: li aveva amorevolmente raccolti nonostante non fossero ancora firmati da me. Impiegai diverso tempo per riuscire a far apporre la sigla “mb”. Erano testi assolutamente impresentabili, totalmente inadeguati, un’esibizione ai confini dell’inaccettabilità. Da quel momento, evidentemente, qualcosa è migliorato…».
Lei è laureato in giurisprudenza. Se fosse andata male da giornalista, avrebbe fatto l’avvocato?
«Era il sogno dei miei genitori. Avrei fatto fatica a concentrarmi su argomenti che non mi appassionano e, in più, non sarei mai riuscito a perorare la causa di imputati totalmente indifendibili. Quella laurea mi è giusto servita per districarmi in servizi intricati, come quelli legati a “calcioscommesse”».
Uno dei suoi maestri è stato Gianni Brera. Ci descriva l’incontro con lui.
«Quando iniziai a collaborare per il “Guerin sportivo” Brera ne era direttore. Poter scrivere per quel giornale era la cosa più irraggiungibile che potesse capitarmi, figurarsi immaginare che un giorno ne sarei diventato direttore. L’incontro con lui avvenne l’8 settembre 1971, giorno del suo compleanno. Mi sembrò di avere di fronte una persona vecchissima: in realtà aveva vent’anni in meno di quelli che ho adesso io (71, ndr).
Ero in soggezione: lui mi squadrò, prese atto che esistevo e non andò molto oltre, per la verità. Mi diede comunque la possibilità di scrivere ed era la cosa più importante. Ogni tanto mi chiedo se, come è stata per me una fortuna incontrare un maestro come lui, io sia riuscito a essere un buon maestro per gli altri. Leggendo gli articoli di alcuni giornalisti di oggi, deduco che io e gli “altri” della mia epoca siamo stati dei cattivi maestri».
A proposito di grandi giornalisti, se sono andati, di recente, quattro di loro: Gianni Mura, Franco Lauro, Bruno Bernardi e Claudio Ferretti. Una parola per ciascuno di loro.
«Mura, irripetibile, l’ultimo dei grandissimi; Lauro, un entusiasta che forse avrebbe meritato di più; Bernardi, un innamorato del giornalismo, sempre elegante, lucido e corretto; Ferretti, un maestro, bravo e impeccabile».
Lei, tra le altre cose, ha inventato l’Enciclopedia del calcio. Non crede si stia perdendo l’essenza dello sport?
«Per me lo sport è sinonimo di cultura. Mi offende il fatto che si occupino di sport ad alto livello persone che non possiedono le basi necessarie per farlo».
Lei ha provato a favorire la formazione di una cultura sportiva nazionale in qualità di membro della Commissione interministeriale per la riforma dello sport nelle scuole. Non crede che ci sia moltissimo da fare?
«Quell’esperienza credo sia stata l’unica sconfitta della mia vita. Ho compreso che non c’era modo di incidere. In Italia c’è tutto da fare su questo fronte. Lo sport è cultura prima ancora che pratica, ma non si è ancora capito. Nelle scuole introdurrei lezioni di educazione sportiva, in modo da far comprendere agli studenti la valenza dello sport che ha saputo far rialzare la nostra nazione, fermare le guerre, dare speranza e fornire grandi esempi, come quelli di Enzo Ferrari, Coppi e Bartali».
Ha promosso la cultura sportiva anche con “Quelli che il calcio”. Qual era il segreto del successo della trasmissione condotta da Fabio Fazio?
«Ho ideato e voluto fortemente quella trasmissione. Nessuno ne comprendeva il valore e non si trovava neppure il conduttore. Con Carlo Sassi individuammo Fabio Fazio, che fece il successo della trasmissione, così come, del resto, la trasmissione fece la sua fortuna. Il segreto? Parlavamo e scherzavamo su argomenti di cui noi e milioni di persone di tutta Italia eravamo profondamente innamorati».
C’è un campione dello sport che sogna di intervistare?
«Purtroppo non c’è più: Kobe Bryant. L’ho incrociato un paio di volte alle Olimpiadi, ma non ho avuto modo di dirgli che l’avevo visto giocare quando era appena un ragazzino».
La canzone che meglio descrive la sua vita?
«“Si può dare di più”, presentata a Sanremo 1987».
Più ancora di quello che ha dato lei?
«Ma sì, ho una vita intera davanti! (ride, ndr)».
La sua prossima invenzione?
«Mi sto misurando con Facebook e i “suoi” commenti, per i quali, a volte, ribalterei il pc. Al di là di questo “passatempo”, proporrò presto il documentario “Nel nome del figlio”, dedicato a figli “famosi” che parlano di padri “famosi” e viceversa. Si inizierà con le interviste di Graziano Rossi sul figlio Valentino e di Piero Ferrari sul padre Enzo».