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Luciano Fontana, direttore del Corriere della sera: «Diffondere tecnologia sarà più importante che garantire sussidi»

«Per ora il Governo non ha una visione del futuro. L’Europa? Deve ancora trovare se stessa. Nel raccontare la crisi il giornalismo ha ritrovato una dimensione di qualità ed è entrato appieno nell’era digitale»

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Direttore, come è sta­to per il Corriere del­la Sera raccontare la cri­si da Covid?
«Si è trattato di una crisi straordinaria, un’emergenza gravissima mai vissuta dalla fine della seconda guerra mondiale. Una crisi pesante, in particolare per la Lombardia e per Milano, proprio dove il Corriere ha la sua sede. Le persone si sono chiuse in casa. E siamo rimasti in pochi anche a lavorare in redazione. Abbiamo cercato di evitare allarmismi, dando la dimensione reale di ciò che stava accadendo. L’unico errore è stato forse aver dato poca attenzione al fat­to che alcune misure dovevano scattare im­mediatamente. Come al­l’inizio, quando si parlava di “Milano riparte” mentre invece non c’erano le condizioni».

Quanto è stato difficile comunicare dati reali? I virologi si sono spesso contraddetti: ora per esempio il professore Zangrillo dice che la carica virale del covid si è attenuata, altri come il professor Pregliasco affermano il contrario.
«In realtà gli esperti anche all’inizio hanno detto cose contrastanti. Tutti ricordano le polemiche dopo che alcuni virologi autorevoli avevano af­fermato che sarebbe sta­ta poco più di un’influenza.

Non e­ra­no chia­re le di­men­sioni del problema, gli e­sperti non sa­pe­vano come muo­versi contro una malattia sconosciuta. Quando abbiamo cominciato a capire, le terapie erano piene, gli ospedali come a Bergamo avevano persone negli scantinati.

Bisognava raccontare le cose come stavano: le conseguenze gravi su alcune fasce della popolazione e il fatto che fossimo disarmati, salvo agire come in certe antiche epidemie: distanziarci, isolarci, avere at­tenzione per le misure igieniche. Credo che per i giornali, in primis il Corriere, sia stato importante trasmettere la consapevolezza di quello che stava accadendo».

I quotidiani escono rafforzati nel rapporto (fin qui complicato) con i lettori?
«C’è stato un recupero del ruolo dell’informazione tradizionale che sembrava travolta dal contesto digitale, tra blog e social. Le persone, nel momento di crisi, hanno voluto aggrapparsi allo scoglio di un giornalismo oggettivo che con le competenze forniva informazioni utili alla comprensione, recuperando qualità. Inoltre, con le persone in casa e le edicole chiuse, il digitale è stato uno strumento fondamentale. Portare su web la stessa qualità tradizionalmente su carta è stata una grande sfida. Abbiamo cambiato le procedure di lavoro, le interviste sul digitale il giorno dopo erano su carta, il flusso è stato invertito e la risposta dei lettori incredibile: a marzo gli utenti unici sono stati di poco inferiori a quelli di Google e Facebook. Le persone hanno recuperato la miglior dimensione del giornalismo come mai negli anni passati».

Come evolve il rapporto con la politica in questo contesto?
«C’è stata una timida partenza in cui il senso di responsabilità della politica sembrava aver preso piede, poi solo tanta confusione e numerosi conflitti. A volte ha agito in ritardo, ci sono state decisioni sbagliate come la mancata protezione per le case degli anziani. E una voglia di iper-comunicazione, di accentramento decisionale su singole persone, sbandamenti della presidenza del consiglio e degli amministratori locali, vedi caso Gallera. Il vecchio vizio della politica basata sul consenso e non sulle strategie: non vorrei che tutto torni come prima. Gli italiani, al di là di alcuni episodi, sono stati responsabili e corretti».

Quale evoluzione per l’Europa?
«L’Europa deve non “ritrovare”, ma “trovare” se stessa. Una comunità di stati che non riesce neanche a calcolare allo stesso modo quali siano i contagiati nei diversi paesi, che non ha una strategia sanitaria comune, fa capire quanto poco sia una vera comunità.

Addirittura all’inizio c’è stata sufficienza nei confronti dell’Italia, il paese in debito e spendaccione che stava esagerando con il virus… Dopo qualcosa è cambiato, la consapevolezza di dover mettere in circolo risorse è stato un timido segnale, grazie all’azione di alcuni stati come Francia, proprio l’Italia, la Spagna e la stessa Germania. Però c’è ancora discussione per il fondo di ripresa sia nella dimensione sia per i comuni finanziamenti, ma le colpe non sono certo dell’Italia o del sud Europa, Le difficoltà dimostrano che questa Europa non ha trovato una dimensione e se non la trova in questa occasione, non la trova mai».

Crede che il governo abbia una visione del futuro?
«Non vedo una visione del futuro, si intuisce che ci sono opportunità legate al cambio del modello di sviluppo, si è capito di dover investire in formazione, ricerca e in un sistema sanitario all’altezza delle sfide. È importante l’investimento nella tecnologia (immaginiamo senza banda larga quanto sarebbe stato difficile lavorare da casa).

C’è da ri-orientare il modello di sviluppo e bisogna farlo insieme come Europa, perché in un mondo global con Cina e Stati Uniti, piccoli stati come l’Italia da soli non potrebbero nulla. Ma che questa consapevolezza sia nata ho dubbi, i provvedimenti del governo sono d’emergenza, sussidi e finanziamenti che servono, le persone ne hanno bisogno, ma pensare a una società di sussidi e non di investimenti non è giusto per la crescita. Questa visione non la vedo, speriamo che possa arrivare».

Per quanto tempo dovremo convivere con gli effetti del virus?
«Il tempo è legato a una cura o a un vaccino a meno che il virus scompaia. Ma non pare questa la previsione degli esperti. Naturalmente tutti sappiamo quanto sia difficile rinunciare alla socialità e alle relazioni che vivono soprattutto i giovani.

Città come Milano non sono vere senza studenti internazionali e senza la componente economica, la moda, il design o gli eventi culturali che fanno vivere le metropoli. È un problema di ri-orientamento degli stili di vita. Gli italiani la loro parte in maggioranza l’hanno fatta, ma vediamo le difficoltà.

È stato detto e scritto dei giovani che credono di non correre rischi: in effetti sui giovani il virus fa meno danni però dobbiamo sapere che siamo un anello del sistema e se ci infettiamo possiamo danneggiare i genitori o i nonni. È una consapevolezza che dovremo avere tutti e ci vorrà una grande azione dell’informazione».