Opinionista televisivo tra i più attivi, Luca Telese entra nel dibattito dell’Italia che esce dall’emergenza sanitaria ancora con poche certezze. E mette il dito nella piaga dei mali di sempre, dalla burocrazia invincibile allo scarso coraggio della classe dirigente.
Il suo è un punto di vista privilegiato, quello dei salotti televisivi: come vede l’Italia in questa fase di passaggio dal covid alla possibile ripartenza?
«In una situazione che richiederebbe cambiamenti in corsa, ma che resta invece ancorata a vecchi problemi. Penso ad esempio all’impossibilità di sbloccare i bandi delle gare di appalto, dove i ritardi erano già gravi prima dell’emergenza sanitaria, figuriamoci oggi».
A proposito di appalti, lei ha raccontato recentemente la vicenda di Pasqualino Monti…
«Il presidente dell’autorità del sistema portuale di Palermo è stato indagato sei mesi per aver chiuso un appalto in tempi “troppo” rapidi, indagato per falso ideologico. Qualcosa di inverosimile. Avrebbero dovuto dargli una medaglia e invece lo hanno messo nel mirino. È il segno che qualcosa si è rotto».
Per quanto riguarda la ripartenza, manca una visione da parte della politica?
«Non solo la politica non ha una visione, ma non ha neppure lo spirito giusto per affrontare questa fase. Mi viene da pensare al mio libro “Cuori rossoblù”, dove racconto la splendida avventura dello scudetto ‘69-70 conquistato dal Cagliari: quella è una tipica storia dei magnifici anni ‘60 e ‘70 ovvero della voglia di fare tipica del periodo, quando si diceva: facciamolo, poi troviamo il modo. Oggi non ne siamo più capaci».
Perché questa distanza dei politici dalle questioni pratiche?
«Perché chi è deputato a fare le regole, nel caso specifico non sa neanche che cosa significhi fare appalti. E così poi si deve intervenire per aggiungere modifiche, i paragrafi bis e anche i quater. È una specie di suicidio».
Il coinvolgimento dei tecnici, da parte del governo, nasceva proprio dall’esigenza di trovare risposte immediate all’emergenza sanitaria. Secondo lei è stata una scelta azzeccata?
«Si è rivelata una scelta molto pericolosa. È emersa l’immagine di un comitato di parrucconi quasi preoccupati che il virus, come stiamo osservando, perdesse la sua virulenza. Perché in qualche modo il loro ruolo sarebbe stato messo in discussione. Ne sono uscite regole folli come quella dell’obbligo di mascherina all’aperto, quando la scienza dice che non è non solo utile, ma dannosa in certi casi».
Perché le scuole non sono state riaperte e c’è poca chiarezza in vista di settembre?
«Anche in questo caso è la conseguenza delle previsioni catastrofiche di certi profeti che dicevano per esempio che il virus sarebbe esploso mentre assistevamo alle gite in massa a Mondello».
Come si riparte?
«Senza sburocratizzare il sistema non si va da nessuna parte. Ho intervistato il presidente dell’Inps, in alcuni casi la macchina ha funzionato in altri meno. Abbastanza bene per i sussidi da 600 euro, molto meno per la cassa integrazione. Ma soprattutto nei momenti di emergenza non possiamo permetterci di affrontare ritardi: è come iniziare un cammino con uno zaino pieno di pietre».
Torniamo al Covid: ci sono virologi che segnalano il progressivo indebolimento del virus ed altri che invitano a non abbassare la guardia. Chi avrà ragione?
«I virologi si sono adeguati alle peggiori caratteristiche della classe dirigente di questo paese: ciarlatani, imbroglioni, presenzialisti. Che poi sono gli stessi difetti della classe politica. I virologi sono entrati in questa fiera delle vanità con i risultati discordanti che abbiamo visto. Il punto è che quando si è chiamati a prendere decisioni per una comunità, tra le altre doti è richiesta una buona dose di coraggio. E questa qualità non sempre si è vista. Bisognava averne per esempio per riaprire le scuole. In altre nazioni è successo».
In definitiva, che cosa serve per un passo avanti deciso verso una normalità?
«Permettetemi di tornare al mio libro sul Cagliari, che poi è lo spaccato di un’Italia perduta. Di quando progettavamo nuove autostrade finendo per costruire mille chilometri in più rispetto ai progetti iniziali. In quello stesso periodo il mondo faceva i conti con un’altra epidemia, il virus A/H Hong Kong, dal luogo in cui si diffuse inizialmente nel 1968. Arrivò in Italia molto tempo dopo lasciando circa ventimila decessi. Quasi come oggi, ma senza le conseguenze devastanti di oggi. E senza intaccare l’ottimismo per il futuro. Dobbiamo tornare a quello spirito».