Zorah aveva otto anni e faceva la domestica presso una coppia benestante di Rawalpindi, in Pakistan. Il papà aveva accettato, quattro mesi fa, che lasciasse il poverissimo villaggio in cui era nata, anche perché quei due signori avevano promesso di mandare la bimba a scuola in cambio delle faccende. Non ha mai avuto un libro o una matita, invece. Solo stoviglie da lavare, pavimenti da spazzare, il bambino di un anno da accudire, umiliazioni, privazioni e botte. Le ultime, fatali.
Zorah è stata pestata furiosamente per aver lasciato fuggire due pappagallini da una gabbia, è arrivata in fin di vita in ospedale e i medici nulla hanno potuto. Aveva ferite al viso, alle mani, alla pancia e alle gambe, gli inquirenti temono abusi sessuali.
Poche ore dopo il ricovero, il suo corpicino si è arreso e la sua storia è rimbalzata sul web commuovendo il mondo: si è diffuso l’hastag #JusticeForZohraShah, che però è una richiesta di giustizia per decine, centinaia, migliaia di altri piccoli: il Pakistan, e non solo, racconta un’infinità di storie crudeli, di bambini assassinati o maltrattati, derubati dell’infanzia, ridotti in schiavitù.
Chi chiede giustizia per Zorah, la chiede per tutti loro. E piange davanti ai disegni che la ritraggono rinchiusa insieme ai due pappagallini che ha liberato. C’è chi dice l’abbia fatto per errore mentre puliva la gabbia o dava loro da mangiare, chi giura invece li abbia lasciati andar via apposta, per amore e sensibilità: se così fosse, forse ha davvero pensato di restituire la libertà perduta, perché nessuno come lei poteva comprendere il dolore, l’oppressione, la malinconia di una prigione ingiusta.
Comunque siano andate le cose, la reazione della coppia è stata folle: quello scricciolo in un lettino d’ospedale, insanguinata e senza forze, fragile e piegata, picchiata senza pietà, torturata finché non ha perso i sensi, era il ritratto di una violenza inaudita che non può non indignare e che deve spingere a pretendere pene durissime. Oggi e sempre. La coppia è in carcere, dovrà pagare.
E Zorah dovrà diventare l’ultima vittima di una condizione cui il mondo deve ribellarsi, il suo sacrificio dovrà essere l’ultimo: in Pakistan il lavoro minorile è illegale soltanto nelle fabbriche, ma non nelle abitazioni private e nei ristoranti dove sono costretti almeno ventunomila bambini, e ora il governo, attraverso il ministro dei Diritti umani, ha assicurato che si attiverà per modificare la legge e classificare il lavoro domestico come non adatto ai minori.
Speriamo, sono troppi i piccoli morti innocenti. E troppe le ingiustizie. Perché “nessun bambino dovrebbe impugnare uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe impugnare sono penne e matite”.
Parole di Iqbal Masih, simbolo della lotta contro lo sfruttamento di milioni di bambini, ucciso in Pakistan a soli dodici anni nel giorno di Pasqua del 1995. Aveva iniziato a lavorare a quattro anni in una fornace e a cinque era stato venduto a un venditore di tappeti dal papà che doveva pagare un debito di dodici dollari, lavorava dodici ore al giorno incatenato a un telaio.
Si ribellò, abbracciò l’attività sindacale, sognava di viaggiare per sensibilizzare il mondo, cominciò ma gli lasciarono poco tempo. Non c’è chiarezza sulla morte, il dubbio sull’ombra della mafia dei tappeti resiste, resta in ogni caso il volto della lotta allo sfruttamento minorile. Quello che adesso ha ucciso Zorah. E che non dovrà uccidere più nessuno.