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Nel pane della Granda secoli di storia

Grani antichi e semi oleosi, sapori del passato sempre più attuali e ricercati che sono in questa terra autentica e radicata tradizione

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Il principe della nostra tavola rimane il pane, l’alimento che più di ogni altro rappresenta lo spirito della famiglia italiana, che solletica palato e intelletto. È anche ormai da diversi anni il protagonista di una festa a Savigliano, a riprova di una tradizione custode nel tempo una cucina sincera, gustosa e decisa nei sapori, senza influenze dovute a mode che possano corrompere la tradizione, strettamente legata ai prodotti locali. Molte delle ricette che compongono questa cucina sono di ispirazione contadina e valorizzano la freschezza dei prodotti genuini della campagna.
Anche il grano rappresenta una tradizione tipica del nostro territorio: cardine della mensa, bene della terra dal quale i cuneesi hanno saputo sempre creare ottimi prodotti, come il pane, ma anche i grissini, le torte, i biscotti. La nostra tradizione artigianale in fatto di prodotti da forno permette agli amanti dei carboidrati moltissime varianti. Risentono perlopiù della tradizione montana, ma anche della tradizione delle valli e delle campagne. Sono pani fatti di farina di grano tenero, acqua e lievito, che non sempre vedono olio e strutto tra gli ingredienti.
La protagonista numero uno delle tavole rimane la Biova, soffice e bianchissima. La Biova, derivata della “micca”, è la più diffusa tipologia regionale, tanto nella grande che nella piccola pezzatura. Ha origini assai remote e la sua produzione è attestata da studi storici locali. La Biova è presente in tutta la provincia, con dimensioni, che si riducono al minimo per consentirne il consumo come panino farcito.
Dalle vallate invece, arriva il Panet, un pane di grano tenero, dalla forma tonda, che tradizionalmente veniva confezionato solo una volta all’anno per la festa dei Santi, e conservato in solaio. Al centro del Panet, per i bambini, veniva fatta cuocere una mela: una vera e propria leccornia.
E sempre dalle valli arriva il Pan Barbarià, pane nero che fa parte dei “Prodotti Agroalimentari Tradizionali”, ovvero quei prodotti “le cui metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura risultano consolidate nel tempo e sono praticate sul proprio territorio in maniera omogenea e secondo regole tradizionali per un periodo non inferiore ai venticinque anni”. Le origini del prodotto, ormai perse nel tempo, dovrebbero risalire a metà del Settecento, frutto di un’antica tecnica di coltura mista delle terrazze d’alta montagna. La segale e il grano venivano infatti seminati insieme, perché lo stelo corto e robusto del frumento poteva sorreggere lo stelo lungo, resistente al freddo ma poco adatto ai venti in quota della segale, permettendole di crescere e svilupparsi. La farina risultante, denominata Barbariato, non ebbe mai una composizione precisa anche perché la miscela di semina dipendeva dalle caratteristiche dei terreni e dalla quota, si trattava quindi di farina mista, “imbarbarita” con cui produrre il Pan Barbarià. Sebbene sia un po’ acidulo, il Pan Barbarià è molto gustoso, ha un’umidità elevata e un colore scuro. Le sue fette sono ottime per preparare crostoni. In effetti, la crosta è croccante e abbastanza spessa mentre la mollica è abbondante, compatta e molto umida.
Il Tupunin invece, è un pane a lievitazione naturale prodotto con farina di grano tenero, acqua, lievito naturale in pasta e sale. Ha una pezzatura di 70-100 grammi, il colore della crosta è bruno dorato, il sapore molto fragrante e ha un’umidità del 20-30%.
Negli ultimi anni piace, anzi è ritornata prepotentemente di moda un’antica usanza: l’alvà, espressione della semplicità per eccellenza. Pane fatto solo con farina e acqua, che in particolari condizioni, avviano un processo di produzione di acidi che si trasformeranno nell’elemento madre per l’impasto. Un pane prodotto con il solo lievito madre più facilmente conservabile, con una mollica più omogena ed un sapore e un odore del tutto unico, oltre ad essere particolamente digeribile. Un tempo, nella panificazione tradizionale, anche lo lievito era collettivo. Veniva infatti, conservato a turno dalle famiglie che provvedevano poi a suddividerlo e a farlo crescere fino ad ottenere la quantità necessaria.
Le modalità di mantenimento ed impiego di questa pasta madre sono particolari: la madre va mantenuta in vita con regolari rifreschi, che consistono nel rimuovere la crosta che si forma all’esterno e nel rimpastare il tutto con l’aggiunta di acqua e farina, avvolgendola poi in un telo di cotone legato con uno spago fino al momento del nuovo utilizzo.
Un capitolo a parte lo meritano i grissini stirati, uno dei più celebri prodotti della gastronomia piemontese, che richiedono un’avanzata tecnica di panificazione, capace di produrre impasti abbastanza elastici da essere allungati manualmente.
Altra specialità il grissino Rubatà i cui ingredienti sono: farina di grano tenero 0 oppure 00, acqua, lievito e sale. Secondo alcuni panificatori, nel prodotto tradizionale non dovrebbero essere presenti grassi di origine animale e vegetale, secondo altri, invece, il grissino tradizionale potrebbe anche contenere strutto oppure olio e strutto. Nel prodotto tradizionale monregalese può essere presente anche latte e/o burro.