Da sempre, nella vita di tutti i giorni, siamo messi di fronte a dei “limiti”: limiti che ci impongono di comportarci in un determinato modo, che ci proiettano nel mondo del cambiamento.
Ci facciamo portatori di uno spirito di adattamento nei confronti delle situazioni che sopraggiungono, cercando di restare a galla. Questa è la realtà con cui si è confrontata Sabina Fornetti, 43 anni, residente a Saluzzo, e nata con una forma di amelìa degli arti inferiori e una focomelìa dell’avambraccio destro. Fortemente voluta da una coppia di giovani genitori, Sabina, fin dalla nascita, si è dovuta confrontare con un vortice di ostacoli.
Determinante la volontà dei familiari, i quali hanno coinvolto ogni medico competente, anche fuori Italia, riuscendo a far sì che la condizione della figlia fosse gestibile in ogni contesto e riuscendo a infondere nella giovane importanti princìpi. IDEA ha voluto raccontare e mettere in evidenza una storia ammirevole, la cui protagonista è una donna che ha trovato la forza di combattere, riuscendo ad assaporare il gusto della vittoria.
Sabina, quali sono state le prime difficoltà che ha incontrato?
«Le difficoltà vere e proprie le ho riscontrate negli occhi della gente: non dei bambini e nemmeno dei miei coetanei, ma degli adulti.
I bambini sono curiosi, così come lo ero anche io; curiosi nei confronti di chi ha l’apparecchio ai denti piuttosto che gli occhiali; curiosi di un gesso al braccio o di una stampella; di conseguenza, lo erano anche nei miei confronti; ma, sciolti i dubbi, fornendo risposte alle loro domande, partiva il gioco, senza nessuna difficoltà.
Purtroppo, non accade la stessa cosa con gli adulti. Loro non fanno domande, evitano proprio il discorso; si scansano e, addirittura, coprono gli occhi dei figli, come per proteggerli: non è certamente da me che dovrebbero proteggerli, bensì dai loro pregiudizi».
Ha mai cercato di cambiare l’aspetto del suo corpo?
«No, per me va bene così e, poi, non vedo perché dovrei essere diversa da come sono: in fondo è proprio grazie a quello che sono che mi ritrovo a essere la persona di oggi e ad avere fatto le esperienze magnifiche che ho finora potuto vivere. Grazie a questa condizione, ho imparato a essere forte e a convivere con una situazione che mi ha accompagnato dalla nascita. Io non ho avuto un incidente, non ho visto il mio corpo cambiare: io sono questa e così sono sempre stata».
Quando è cominciata la sua passione per lo sport?
«Ho cominciato a praticare nuoto su consiglio di un grande medico, con l’obiettivo di apportare benefici alla mia struttura muscolare e fisica. Quando mi sono immersa per la prima volta in piscina, mi sono sentita libera, non ho sentito impedimenti di alcun tipo e, in quel preciso momento, ho capito che lo sport poteva rendermi libera in generale. I miei insegnanti, fin dalle elementari, mi hanno incluso in ogni tipo di progetto sportivo, senza mettermi da parte; così, ho potuto coltivare la mia passione che, negli anni, mi ha portato a provare ogni tipo di sport e, addirittura, a propormi come atleta in seno al Comitato italiano paralimpico».
Come ha reagito quando le hanno chiesto di fare parte della Nazionale italiana di “sitting volley”, la pallavolo paralimpica?
«Inizialmente credevo fosse uno scherzo; poi, quando ho realizzato, ho capito che quella era un’altra occasione utile per mettermi in gioco.
Così ho iniziato quella nuova avventura in giro per il mondo, facendo “bottino” di quella esperienza magnifica e confrontandomi con moltissime realtà. Il “sitting volley” è uno sport meraviglioso, perché unisce in un’unica squadra normodotati e disabili. Lo pratico in due diverse società: Valle Po e Chieri. Nella Valle Po, sono anche allenatrice, oltre che giocatrice. Avremmo tuttavia necessità di poter avere a disposizione un allenatore vero e proprio».
Se potesse cambiare qualcosa cosa modificherebbe?
«L’unica cosa che veramente non riesco a superare, a livello concettuale, sono le barriere architettoniche. Non concepisco proprio, come nel 2020, ci possano ancora essere ingressi differenziati, entrate di serie A e di serie B. Mi domando come sia possibile non riuscire a realizzare un unico accesso facilitato, così che possa essere utilizzabile da tutti, senza creare impedimenti di alcun tipo.
Ho visitato parecchi Paesi e in alcuni di essi non viene minimamente presa in considerazione questa distinzione: quando si costruisce, ristruttura o aggiorna una costruzione, questa viene “pensata” proprio in chiave dell’accessibilità, abbattendo o, comunque, evitando di costruire tutto ciò che potrebbe costituire un ostacolo».