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«Questo mondo sta perdendo ogni certezza»

Toni capuozzo: «il covid ha già cambiato il panorama» «Durante la quarantena ho scritto un diario che ha suscitato molte reazioni online e che è diventato prima un podcast e poi un libro. Per la prima volta ho svolto un’inchiesta su me stesso...»

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Toni Capuozzo, una vita passata a inseguire inchieste giornalistiche: come è nata l’idea di scrivere un libro durante l’epidemia?
«Non era una situazione consueta e mi è capitato di mettermi a scrivere, ma senza pensare a un libro. Avevo semplicemente bisogno di sfogarmi. Un po’ come tutti: c’è stato chi ha curato l’orto, chi ha lavorato. Io facevo fatica a leggere, per qualche motivo, così ho pensato di mettermi a scrivere. Online molte persone interagivano e così è nata l’idea di trasformare il diario in un libro».

Prima però c’è stato il passaggio su podcast?
«L’idea è nata su suggerimento di un lettore. Ha avuto successo e un editore mi ha chiamato. Tutto in poco tempo, non ho neanche riletto le bozze. Essendo un vero diario, ho pensato che doveva essere il più possibile spontaneo».

Quasi un servizio rivolto ai lettori in un periodo così particolare?
«Forse con la scrittura si può comunicare più facilmente serenità, qualcosa di cui si ha bisogno in questi giorni. Lo dico io che ho attraversato mille conflitti nel mondo. Non mi aspettavo questo riscontro dalla gente, ma la narrazione evidentemente era diventata un punto di riferimento contro un nemico invisibile».

Dal punto di vista professionale un’esperienza inedita?
«Sì, con questo libro è cambiato il mio approccio: prima avevo sempre raccontato le storie degli altri, mai pensato di essere un protagonista».

E ora, dopo la quarantena, quali prospettive abbiamo davanti?
«Il virus resterà in primo piano, a meno di un vaccino imminente. Ma questo evento rimarrà nella storia come un altro 11 settembre che in quel caso cambiò il modo di viaggiare, i controlli in aeroporto, i paesi non più visitabili e poi gli attentati. Ha segnato un secolo che ci saremmo aspettati diverso dopo la caduta del muro di Berlino, un mondo che allora appariva multipolare, proteso verso uno sviluppo armonico che, invece, non c’è stato».

Questa che abbiamo davanti è una nuova opportunità?
«Non saprei, ma torno a dire che ci condizionerà a lungo. Nel lavoro e nel tempo libero. Pensiamo per esempio all’aeroporto di Linate non ancora riaperto. Pensiamo alla scuola che infatti non si sa ancora come possa riaprire. Ma anche ai rapporti che cambiano in fa­miglia».

Lei ha già sperimentato qualche difficoltà?
«Mio figlio si trova in In­ghilterra e non sa bene che cosa potrà fare. C’è una somma di cambiamenti in atto, finora pensavamo in un certo modo ma da adesso in poi tutto cambia velocemente. Sono non­no, penso anche alla mascherina che devo mettere se vedo il mio nipotino… Questo bastone nelle ruote della globalizzazione provocherà conseguenze che vedremo per decenni».

Vede un disegno nelle strategie internazionali dietro al virus?
«Non sono mai stato favorevole alle teorie complottistiche, cer­to andrebbe verificato il ruolo della Cina, le sue responsabilità iniziali. Il virus può essere una cartina di tornasole per capire quanto sia potente la Cina. Quanto cioè il mondo sia condizionato dai certi legami economici. Fa riflettere quanto sta accadendo a Hong Kong. Un tempo la sinistra sarebbe scesa in piazza ovunque, ma non vedo neanche inviati sul posto a raccontare…».

A proposito, il giornalismo è cambiato?
«Deve descrivere un mondo molto più disordinato di un tempo. A Kabul c’è un cimitero europeo dove ho visto la lapide di un ragazzo che doveva raggiungere Katmandu. Oggi questi viaggi sarebbero molto più complicati, se non impossibili. Negli anni ‘60 potevi andare in autobus da Londra all’India, oggi su quell’itinerario ci sono troppi paesi pericolosi».

Si sente ottimista?
«Lo sono per natura, ma trovo sia giusto essere preparati al peg­gio. “Andrà tutto bene” è solo un’illusione e difficilmente si esce dalle sofferenze mi­gliori di prima. Da un lato questa situazione aiuta a riscoprire i punti di riferimento, ma dubito che ne usciremo con conquiste realmente positive. Siamo abituati dal cinema a vedere grandi rinascite dopo le guerre, stavolta credo che l’ombra lasciata dal Covid non se ne andrà facilmente. E comunque non ho mai visto conflitti capaci di lasciare una realtà ripulita. Solo incertezze, sospetti e una vita in generale molto amara».

Che cosa ha fatto subito dopo la quarantena?
«Visto che non trovavo i bi­glietti dopo un volo cancellato, sono partito assieme a un amico verso Pantelleria. Tre giorni e due notti di viaggio. Un po’ come quando facevo il militare e c’era la licenza 10+3, perché contava anche i giorni di viaggio. È stata un’esperienza singolare, fuori dal tempo. Questa sì piacevole e positiva. Ma è stato un fatto contingente».

Perché “Italia chiusa” nel titolo del libro?
«Perché scrivevo il mio diario da Milano, dove ho dovuto trascorrere la quarantena, una città abituata a vivere intensamente che in quei giorni era diventata blindata. Un po’ l’opposto di Ro­ma “città aperta”. Era un segno dei tempi e un’immagine che descriveva bene quel momento così inaspettato. Uscirà anche un audiolibro su questo argomento».