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«Anche gli attori sono lavoratori in difficoltà»

I mille ruoli di Karin Proia: «Che emozione dirigere Claudia Cardinale… Alba incantevole, ci tornerei in vacanza»

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È entrata nell’immaginario collettivo (so­prattutto maschile) per quello spot or­mai storico di una bibita ghiacciata, nel quale respingeva le “avance” del focoso compagno sussurrando «Anto’, fa caldo». Da lì l’immagine di nuova Bel­lucci o Ferilli, da lei sempre dribblata. Perché Ka­rin Proia è troppo ironica e intelligente per le­garsi a uno stereotipo. E infatti oggi è attrice, autrice, regista e anche “sindacalista”».

Il coronavirus ha evidenziato le difficoltà di chi fa della recitazione una professione: assieme a suo marito Raffaele Buranelli aveva scritto una lettera al ministro Franceschini. Ci sono stati sviluppi?
«La crisi ha portato alla luce i nu­merosi problemi che la categoria degli attori si trascina dietro storicamente. Questo perché, incredibile a dirsi, la professione dell’attore in Italia non è riconosciuta giuridicamente. Siamo invisibili agli occhi dello Stato. Nel caso degli attori più famosi è più facile essere identificati; nonostante ciò, anche per molti di questi il criterio applicato non funziona. Ma c’è un mare di attori con minor visibilità, che co­munque contribuisce al gettito fiscale italiano, che con quei criteri è stato impossibile identificare e che si trova in grandissima difficoltà. Si è quindi deciso di definire questa riconoscibilità giuridica, considerando che per la stragrande maggioranza delle attrici e degli attori risultano inaccessibili tutte le tutele. For­tunatamente abbiamo trovato in Marianna Madia, Flavia Piccoli Nardelli e Debora Serracchiani tre interlocutrici molto sensibili, con le quali abbiamo lavorato ad una proposta di legge per un Registro nazionale degli attori».

Guardando al prossimo futuro, come ripartono cinema e teatro?
«Probabilmente dovrà essere la cultura ad andare incontro alla gente e solo i teatri con sovvenzioni statali potranno permettersi di fare spettacoli. Al cinema ancora non si è trovato un modo per assicurare eventuali danni dal Covid, cui peraltro le attrici e gli attori sono inevitabilmente i più esposti. La creatività del comparto cercherà senza dubbio altre vie, ma siamo un settore profondamente in crisi, i primi a chiudere e gli ultimi a riaprire. Per chi riaprirà».

“Il cinema non si ferma” è il progetto del docufilm girato in quarantena e in cui è stata coinvolta. Che esperienza è stata?
«Molto interessante. Un lavoro che aveva come scopo descrivere un periodo che speriamo unico, ma anche devolvere i proventi alla Protezione civile per essere di sostegno a chi ha lavorato in prima linea rischiando la vita. Quindi è stato messo in piedi questo primo film in smart working e a “km 0” con una regia che ci seguiva da remoto. Con me nel cast, in ordine sparso, anche Mar­got Sikabonyi, Nicolas Vaporidis, Remo Girone, Maria Grazia Cu­cinotta e tantissimi altri. Con la regia di Marco Serafini. Una commedia dalla quarantena».

Netflix ha rilanciato Boris, serie tv e film di successo a cui lei ha partecipato. Che ricordi ha? Pot­rebbe esserci una nuova stagione all’orizzonte?
«Ricordi meravigliosi. Un set scoppiettante e una compagnia dinamica, creativa e potente. Ma Boris 4 non si è mai girato perché gli autori non erano convinti di proseguire. Dopo la dolorosa scomparsa del genio e amico fraterno Mattia Torre, temo che sia ancora più difficile, nonostante le numerose raccolte firme che si continuano a portare avanti. Se accadesse, sarebbe una cosa bellissima».

Nella serie “Le tre rose di Eva” ha avuto una parte di spicco. Quanto c’era del suo carattere in quel ruolo?
«È incredibile come mi si rivolga sempre questa domanda. Mi stupisce sempre un po’. So­no state 4 serie di circa 14 puntate l’una, quindi anche il personaggio ha avuto una decisa evoluzione. Inizialmente faceva sempre scelte opposte a quelle che avrei fatto io. Man mano, invece, hanno cominciato a calzare un po’ di più al mio carattere. Mi sono sempre definita “ruolopatica”, per dire che sì, certo, io influenzo per forza il personaggio, ma anche il personaggio, durante le riprese, influenza un po’ me. Mi immedesimo molto e dopo 4 serie un personaggio cominci a conoscerlo davvero a fondo».

“Una gita a Roma” è il suo film da regista, diventato libro. Pro­fessionalmente e umanamente che cosa le resta?
«Resta tutto. Un’avventura nata nel buio della mia camera da letto, guardando il soffitto, da sola: porto nel cuore tutto il percorso per arrivare a dirigere Claudia Cardinale, l’attrice che mi ha fatto innamorare del cinema con i suoi primi piani incantevoli in “C’era una volta il West” di Sergio Leone, e il mitico Philippe Leroy, che mi ha regalato un’interpretazione magnifica. E poi mia figlia di appena 5 anni che sul set batte uno sgabellino rosso pieghevole come se fosse un ciak e annuncia: “47-1-Prima. Due macchine!”, lo studio di incisione col maestro Premio Oscar Nicola Piovani proprio il giorno del mio quarantunesimo compleanno, la sala gremita al cinema “Oktyabr” di Mosca alle 13,30 di un lunedì, che mi ha lasciata sen­za parole, l’inaspettato premio come “Miglior film straniero” al Feff di Toronto, Roma bruciante in agosto con i bambini impiastricciati di crema solare, la fede nuziale persa a piazza Navona e ritornata a casa per posta dal­l’Inghilterra grazie a un turista che, dall’incisione interna, era riuscito a risalire a me… e tantissimo altro. Ma ora rifletto su cosa resta ancora da fare e spero di avere la possibilità di farlo presto».

Che cosa conserva dell’esperienza di “Non è la Rai”?
«Quel lavoro non mi sarebbe val­so il contributo del sussidio Co­vid-19 di marzo, perché sono state solo 20 giornate contributive. Quindi un lampo, nella vita di una ragazza di 18 anni. Comun­que ricordo quel periodo come molto positivo, anche se ho preferito lasciare per andare in Rai a “Scommettiamo che..?” con l’amato Fabrizio Frizzi, una delle persone più belle e sensibili che io abbia mai conosciuto sul lavoro. Tra le cose più divertenti che ricordo di “Non è la Rai” è che uno degli operatori del programma, visto che ero sempre lì a chiedere informazioni tecniche, du­rante l’ultima puntata mi ha fatto puntare la telecamera su una ragazza e stringere sul suo primo piano fino a quando la regia non ha staccato mandando in onda la mia ripresa».

La Rivista IDEA ha sede ad Alba, nel cuore delle Langhe: conosce il territorio?
«Sì, ci sono stata. Alba è una città incantevole, ricca di storia e di cultura e il territorio è davvero splendido. Spero di ritornare presto, magari proprio questa estate, se riesco. Visto che ho deciso di passare le mie vacanze in Italia, potrebbe essere la giusta occasione».