35 minuti di video, 3 mesi di “lockdown” per realizzarlo e tutta la vita passata nelle sue vie e tra i suoi abitanti per concepirlo. Si può decostruire così “Canale in cammino”, un documentario, forse il primo totalmente dedicato a Canale, alle sue storie, i suoi spunti, i suoi scorci e le sue suggestioni. La produzione porta la firma di Paolo Destefanis, cronista della sinistra Tanaro dal 1994, collaboratore di alcune testate giornalistiche della Granda, tra cui anche Rivista IDEA, ma anche impiegato del servizio anagrafe a Castagnito nella vita di tutti i giorni.
Paolo, da cosa è partito per questo documentario che funziona anche se lo si ascolta senza vedere le immagini o lo si guarda con l’audio staccato?
«Diciamo che “Canale in cammino” è, per certi versi, un debito da onorare con quello che è il posto in cui sono nato, cresciuto e che ancora chiamo “casa”.
Ho pensato più volte a come ogni angolo di strada, di collina, avesse qualcosa da raccontare: un po’ perché, come accade a ognuno di noi, basta il segno su un mattone, il fronte di una chiesa, per evocare ricordi personali o di racconti ascoltati nel tempo. Un po’ anche perché, sin da piccolo, ho sempre creduto che tutti questi pensieri insieme potessero comporre una sorta di storia collettiva. Così ho iniziato a raccogliere immagini, piccole riprese, inizialmente senza un filo razionale: spinto solo dalle emozioni che, di volta in volta, Canale sapeva portare prendendomi idealmente “per mano”.
E poi, il periodo dell’emergenza sanitaria… Per me sono state settimane intense: ho continuato a lavorare nel “mio” Comune di Castagnito, senza smettere di scrivere, cercando di rimanere il più possibile quel fondamentale legame con quegli “affetti più cari” (che, capovolgendo le parole di Pavese, sono le più liete abitudini) ma accorgendomi di giorno in giorno di quanto potesse essere stravolgente la “nuova normalità” di quei mesi. Cosa fare, allora? Dare fuoco a quell’ideale ovatta che stava avvolgendo ognuno di noi, ripescando quelle foto, quei video, immaginandone altri da fare non appena giunto il primo segno di “via libera”.
Immagini di anni passati, alcune addirittura di dieci, quindici anni fa, che ne hanno chiamate altre, dettando quel filo logico che mancava. Con il fondamentale aiuto, in termini di ordine e di spunti, da parte di mio padre Giovanni (che di suggestioni canalesi è una miniera vivente) e della mia compagna Marialuisa.
Hanno saputo anche sollevarmi dalla mia latente pigrizia: cogliendo di giorno in giorno l’entusiasmo che stavo vivendo in questa sorta di avventura, abituandosi al sentirmi parlare di capitoli che diventavano prima quattro, poi sei, sino agli otto della versione finale, pazientando ogni volta in cui mi arrabbiavo in modo “sano” per le varie difficoltà tecniche di produzione, apprezzando in modo bonario le musiche che via via componevo.
Alla fine, la lavorazione è durata un mese e mezzo: so che per certi versi resta un lavoro un poco “naif”, artigianale, pur lontano dai “geniali dilettanti” di fenogliana memoria. Ma è pronto, è qui: e spero possa essere utile, come invito a scoprire e riscoprire Canale».
Utile ai canalesi o agli altri?
«Mi piace pensare che “Canale in cammino” possa essere letto su più livelli, che si possa scegliere la via della narrazione per immagini e la linea delle parole: come una riflessione sulle qualità storiche della nostra cittadine vissuta “dal di dentro”, ma anche come un modo per avvicinarsi a questo luogo che (lo so, è una cosa ai limiti dello sciovinismo) trovo meraviglioso così come ogni posto che fa rima con “casa”. Le persone che vivono qui possono sentire un che di familiare nei nomi di chi in ogni tempo ha fatto davvero opera di memoria, così come accade in ogni paese, per fortuna. Qui ci sono state figure come Dalzo Bracco, Paolo Pasquero, il giornalista Fortunato Lovisolo che fu anche un’eccellente “penna” della Gazzetta del Popolo: ma anche storici come Baldassarre Molino, senza il quale il Roero sarebbe diverso. Ecco, vorrei cogliere l’occasione per ringraziarlo per tutta la sua opera».
In questo video, come pure nella sua attività giornalistica, dimostra di avere competenze e conoscenze in campi diversi, oltre che un grande amore per il Roero. Dovessi scegliere un tratto distintivo per raccontarsi, quale sceglierebbe?
«Domanda dalle cento pistole! Diciamo che sono un ragazzino a cui un giorno hanno detto: “guarda, se vuoi capire un poco di più di cosa accade in questo mondo, devi iniziare dai luoghi in cui vivi”: uno che, da lì, ha iniziato ad ascoltare i racconti dei grandi e degli anziani, scoprendo via via un interesse sempre più vivo per ciò che riguarda l’appuntarsi ogni cosa, per poterla poi raccontare agli altri. Ecco, è così che ho iniziato a scrivere: mantenendo vivo quel ragazzino che è ancora dentro di me. Per questo, spesso, continuo a fare qualche follia».
Avendo a disposizione un vero “congiunto del Roero” come lei, vorrei chiudere con una sorta di “spot” per la sinistra Tanaro. Cosa caratterizza più di ogni altra cosa queste terre?
«Abbiamo senza dubbio un senso di appartenenza sempre più forte a questa parola, “Roero”, e alla terra che ne significa: la vivacità non ci manca, e la consapevolezza delle qualità del nostro territorio sta aumentando nel tempo.
Abbiamo un patrimonio fatto di ambiente e cultura di valido potenziale, che passa da una biodiversità da preservare, a tratti storici e architettonici che ora chiedono di essere definitamente fruibili ai visitatori.
Le braccia sono già spalancate: e penso a ogni volta in cui mi reco in Sicilia, nei luoghi di Montalbano che sono diventati per me un po’ una terra adottiva. Sorrido, ogni volta che sento dire che i piemontesi se li figuravano diversi, più “chiusi”: il fatto è che qui, nel Roero, lo spirito di accoglienza è un’attitudine.
E poi abbiamo il Roero Arneis Docg: un vino che è come un biglietto da visita, che sa stupire ogni volta in cui usciamo dai nostri confini. La direzione è quella giusta: ora andiamo avanti, tutti insieme».