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Di padre in figlio

Un poliziotto e un medico morti sul lavoro, i due loro ragazzi che cullano un ricordo e scelgono di seguirne le orme professionali

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Francesco ha appena prestato giuramento, orgoglioso della sua divisa, impeccabile nella postura ma con il cuore in tumulto, tradito solo dagli occhi lucidi di commozione. Stato d’animo diffuso tra i giovani poliziotti allineati nel piazzale addobbato con il tricolore, sul confine tra i sacrifici del corso e il servizio scelto come ragione di vita, eppure particolare in lui che somma alla fierezza il dolore, il riscatto, la continuità, l’esempio. E sfoglia ricordi ricostruiti attraverso racconti, video, fotografie: era troppo piccolo per conservarne di suoi, aveva solo due anni quando una banda di criminali gli strappò la guida, il sostegno, l’ombra benevola d’un padre. Luca (Benincasa, nella foto sopra, a sinistra, ndr) era anche lui poliziotto e lavorava alla Stradale di Perugia, fu ucciso a colpi di arma da fuoco su un raccordo da una banda in fuga dopo una rapina. La sua auto aveva intercettato quella dei rapinatori, l’affiancò intimando l’alt e la risposta fu un’esplosione di proiettili: colpito alla testa non ebbe scampo, il collega seriamente ferito si salvò dopo lunghi patimenti. Vent’anni dopo quella tragedia che ne ha segnato la vita, Francesco indossa la stessa divisa e prende servizio nella stessa città, Perugia, in questura dove tanti colleghi più anziani accogliendolo faticano a nascondere le lacrime. Non restano così solo il ricordo, una medaglia d’oro al valor civile e il nome della sezione di polizia stradale: ci sono i suoi occhi che tornano a sorridere sotto il cappello d’ordinanza, quegli occhi lasciati in eredità al figlioletto quando i suoi, a ventotto anni appena, si spensero.
Massimo ha discusso invece la tesi, non aveva una divisa ma un vestito blu con cravatta azzurra, in testa non un cappello d’ordinanza ma la corona dei neolaureati. Pochi anni di differenza, stessa sospensione tra la fine d’un percorso scelto con sacrificio e l’inizio di una nuova vita professionale, stessa emozione e stessa commozione. Perché anche Massimo segue le orme del papà caduto sul lavoro, medico come lui è diventato. Massimo non ha avuto un vuoto nell’infanzia e nell’adolescenza, ha perso solo pochi mesi fa il suo riferimento a causa del coronavirus: Roberto era presidente dell’Ordine dei medici e odontoiatri della provincia di Varese e medico di base a Busto Arsizio, è stato uno dei primi eroi in camice bianco ad ammalarsi e, purtroppo, a morire, ha combattuto senza risparmiarsi per salvare vite e ha sacrificato la sua. Difficile, in giorni così, tracciare un confine tra gioia e dolore, orgoglio e malinconia, certezza di vedere un sorriso lassù nel cielo e malinconia struggente per sorrisi perduti nel quotidiano, difficile anche trovare parole per esprimere sentimenti, ringraziare, sfuggire senza offendere nessuno a una popolarità tenera eppure sgradita in un momento in cui si vorrebbe solo cullare la memoria e pensare alla bellezza e alla responsabilità di continuare un cammino, di portare un padre non solo nell’anima ma anche nel futuro. “È per papà” si limita a dire Massimo accarezzando la tesi nel giorno della laurea. E sicuramente lo ha pensato anche Francesco, stringendo mani e ricambiando sguardi benevoli, ascoltando mille volte una frase fatta, abusata e scontata, che però, nel momento del loro ingresso nel mondo del lavoro, assume un significato speciale e risulta sincerissima: “Papà sarà orgoglioso di te”. Un sentimento ricambiato, il primo orgoglio è quello dei figli per i padri: eroi amati e perduti che diventano modelli da seguire ogni giorno, proteggendo e salvando vite in maniera diversa e uguale, con una divisa o un camice ma sempre con il cuore.