Soltanto il nome lo tradisce. Ascoltandolo, infatti, si ha l’idea di avere di fronte un ex calciatore venuto dall’Est, tanto approfondita è la sua conoscenza dei fatti sportivi balcanici. Invece, Danilo Crepaldi è italianissimo: vive a Pralormo, in provincia di Torino, e ha un legame strettissimo con l’Albese e la provincia di Cuneo, sia per ragioni sportive sia per quello che sta diventando qualcosa più di un hobby: la scrittura di libri calcistici aventi per protagonisti calciatori e allenatori dell’Est, oltre ad ambientazioni tipiche dell’ex Unione sovietica.
Allenatore per quasi un decennio delle squadre giovanili dell’Albese, assecondando la sua passione per la scrittura, ha iniziato a occuparsi di progetti editoriali proprio nell’ambito dell’esperienza sulla panchina delle squadre biancoazzurre. In questo periodo pubblica il volume “Una storia da raccontare” che celebra proprio i 100 anni dell’Albese calcio. Sono poi seguiti “Footballslavia. Il calcio nella Repubblica popolare socialista di Jugoslavia”, “Figli della Jugoslavia. Il calcio slavo dopo la tempesta” e, soprattutto, le due opere che lo hanno reso noto pure negli ambienti del “calcio che conta”: “Pallone entra quando Dio vuole. Vita, aforismi e miracoli di Vujadin Boskov” e “Storia di un campione triste. Oleksander Zavarov, una storia di calcio e perestrojka”.
Crepaldi, come è nata la sua passione per la scrittura?
«Sono sempre stato un grande appassionato di lettura. Divoravo letteralmente i libri e sognavo di scriverne uno. Ma non mi ero mai cimentato con la scrittura, finché non si è presentata l’occasione: negli anni cui ero impegnato con l’Albese calcio, più precisamente nel 2017, ho realizzato il libro sui 100 anni di vita della società di corso Coppino. Da quel momento non mi sono più fermato, anche perché la scrittura mi consente di unire la passione per il calcio con quella per le vicende dell’Europa dell’Est e, in particolare, della regione balcanica».
Ci parli del suo rapporto con l’Albese calcio.
«Il calcio è sempre stato di casa nella mia famiglia. Come mio nonno e mio padre, anche io ho giocato; mai, però, ad alti livelli. Grazie all’amico Davide Tibaldi, oggi tecnico del progetto “Village Joy of moving”, ho avuto la possibilità di mettere in pratica i tanti studi teorici di tattica e tecnica sostenuti negli anni allenando le squadre giovanili dell’Albese. L’ho fatto quasi per dieci anni, durante la gestione del presidente Franco Rava. Con i ragazzi dell’annata 1997 ci siamo anche aggiudicati il titolo provinciale».
Quali episodi della storia dell’Albese l’hanno più colpita?
«Gli anni della Serie C hanno sicuramente rappresentato il culmine nella storia della società biancoazzurra. Tuttavia, ci sono altri episodi che mi emozionano più di tutti: penso alle fasi che portarono alla fondazione, ma anche gli anni del periodo fascista, quando l’Albese, di fatto, ospitò una Juventus in fuga da Torino a causa dei bombardamenti. Inoltre, mi piace sempre ricordare quell’amichevole del 1927 in cui l’Albese raggiunse il suo risultato più importante, pareggiando 2-2 in casa, proprio contro i bianconeri: i tabellini dell’epoca riportano, per l’Albese, una doppietta su rigore di un tal Pastore che, in realtà, non è mai esistito. Si trattava di Gioacchino “Chino” Rossello che, avendo ricevuto dal padre il divieto di giocare a calcio, scendeva in campo sotto mentite spoglie».
Dall’Albese a Boskov. Come è nato questo progetto editoriale?
«Casualmente uno dei miei libri sul calcio balcanico è stato letto da Borislav Vegezzi, ovvero il nipote del mitico allenatore Vujadin Boskov, il quale si è messo in contatto con me. Colloquiando, gli ho confidato che stimavo molto il suo compianto nonno, sia a livello sportivo sia umano, e che mi sarebbe piaciuto scriverne la biografia. Gli è piaciuta l’idea e così mi ha messo in contatto con la madre Aleksandra, figlia di Vujadin. Si è trattato di un incontro decisivo, che mi ha permesso di conoscere i luoghi cari all’ex allenatore di Vojvodina, Real Madrid e Sampdoria, solo per citare alcuni dei club più importanti che ha allenato, oltre a tutte le persone che, avendolo frequentato, mi hanno supportato al fine di tracciarne il ritratto. Sono orgoglioso di aver portato a termine l’opera che oggi rappresenta la prima biografia italiana autorizzata dalla famiglia».
Cosa apprezza maggiormente del tecnico jugoslavo?
«Purtroppo non ho avuto la possibilità di conoscerlo da vivo, ma le molte testimonianze raccolte mi hanno confermato il fatto che era una persona straordinaria. Nel 1992, negli spogliatoi di Wembley, quando trovò i propri giocatori in lacrime in seguito alla sconfitta della finale di Coppa dei Campioni, li rincuorò, dicendo loro che “Dopo pioggia, viene sole”: a prescindere dal risultato, quella squadra sarebbe stata ricordata per sempre con emozione dai tifosi della Sampdoria».
Ha citato uno dei proverbiali aforismi del mister. I suoi preferiti?
«Quello che è diventato il titolo del mio libro, “Pallone entra quando Dio vuole”, ma anche “Quando cacciatore sbaglia mira, lepri scappano”».
Nell’ultima fatica letteraria ha approfondito la figura dell’ex juventino Zavarov. Una scelta inconsueta, non crede?
«Quando ero bambino avevo il suo poster in camera: era il mio idolo e non riuscivo a spiegarmi il perché non fosse riuscito ad affermarsi in Serie A. Parlandogli e ricostruendone la carriera, ho compreso le cause. Ne è valsa la pena, perché ho scoperto un’altra persona eccezionale».
I prossimi progetti?
«La biografia di Lobanovsky, storico allenatore della Dinamo Kiev, e poi quella di Dragan Stojkovic».