Parafrasando Giorgio Gaber: “Non ho pau­ra del Pojana in sé, ho paura del Po­jana in me”. È una riflessione che viene naturale sentendo parlare il personaggio portato alla ribalta dall’attore Andrea Pen­nacchi e al centro dello spettacolo andato in scena a Cu­­neo ieri, mercoledì 22 lu­glio, all’interno dell’Arena Cu­neo film festival. L’artista veneto ha provato a tracciare con IDEA i confini del personaggio reso celebre anche dal programma tv “Propaganda live”.

Pennacchi, quali sono i tratti che definiscono il Pojanistan?
«È un paese dell’anima, confina con tutto ed è dentro ognuno di noi. Questi sono i tratti del Pojanistan. Alcuni lo potrebbero definire il luogo in cui si ragiona con la pancia, ma per me il discorso è più articolato di così; è un luogo arcaico».

Il Pojana parla spesso di capannoni. Vien da pensare ad Antonio Albanese che nei suoi monologhi fa satira sui figli che si drogano perché non in gra­do di costruire capannoni più grandi di quelli dei padri. Ci sono punti in comune tra i due mon­di?
«Sono mondi contigui. Pur amando follemente Albanese, il mio racconto è legato a un’altra idea di capannone. Qui il punto non è quanto ce l’hai grosso, il capannone. L’idea è che il padre lavora 24 ore al giorno, perché il capannone è anche casa sua. Non quanti soldi fa, ma quanto lavora denota quanto è bravo, e questo vorrebbe facesse il figlio, mentre il figlio, il più delle volte, non ha intenzione di passare tutta la sua vita prigioniero del “capanon”. Il capannone nel Pojanistan è meno edipico, ancora più “grande madre”, quello che ti tiene chiuso nel suo grembo».

“Pojana e i suoi fratelli” è il titolo dello spettacolo e di un libro. Però Pojana sembra essere sempre più preponderante. Non si corre il rischio che diventi troppo preponderante?
«È un mio personaggio e co­me una mamma gli voglio bene allo stesso modo in cui ne voglio agli altri. È ovvio che in questo momento Pojana è più forte, più grosso. Grazie al fatto che l’ho “prestato” al testo di Giacosa per il famoso video “Ciao terroni!”, è cresciuto, ha imparato alcune cose e adesso ha una voce diversa. Quando si è trattato di interpretare quel testo io e il regista abbiamo pensato a chi potesse dargli voce ed è stato selezionato il Pojana, tra un gruppo di cattivi. Il rischio che prevalga sugli altri c’è, ma durante il “lockdown” ho anche preparato dei video per il Teatro stabile del Veneto che hanno ottenuto un ottimo riscontro. Chi è andato a vederli perché conosceva il Pojana mi ha poi detto di non aspettarsi questo mio lato, ma nonostante ciò ha comunque ap­prezzato questi testi del tutto diversi. Una cosa in comune, però, c’è: anche quando racconto l’Iliade lo faccio immaginandola nel mio quartiere. Cerco sempre di rendere vicine le cose che mi sembrano distanti e viceversa».

A proposito di cose vicine, se il Pojana fosse stato Pre­sidente del Veneto durante il Covid-19, probabilmente si sarebbe comportato come Zaia. E avrebbe fatto bene, non crede?
«Si sarebbe comportato esattamente come Zaia, forse avrebbe solo approfittato un po’ di più della momentanea autonomia concessa dal “lockdown”. Lo dico anche fuori personaggio, tutti noi abbiamo visto che le scelte di Zaia, per quello che riguarda l’emergenza sanitaria, sono state giuste».

Bravura o fortuna?
«Qui non si tratta di fortuna, Per ammissione dello stesso Andrea Crisanti (virologo che ha fatto parte del Comitato tecnico scientifico della Regione Veneto sull’emergenza Covid), è stato scelto e ascoltato da Zaia anche se aveva 2.000 motivi per non farlo. Invece Zaia lo ha fatto di sua iniziativa, prendendosi dei rischi. Io non sono uno che va contro a prescindere, qui ha fatto giusto, ha fatto bene ed è stato lui, non dipende dalla fortuna, anche se la fortuna c’entra in tutte le imprese umane».

Dal Veneto come regione al veneto come lingua. Quanto conta per la riuscita dei suoi monologhi l’uso del dialetto e non teme di non essere capito nel resto dell’Italia?
«È fondamentale per discavare dentro di me, dentro i miei avi, quelli del bar che conosco, dentro quei suoni, a volte anche un po’ gutturali, che hanno a che fare con le viscere, per cui spesso stiamo all’ascolto anche di messaggi non razionali. Sul timore di non essere capito a “Propaganda live” mi avvalgo sempre dell’aiuto di Makkox che mi fa in un certo senso da autore, dicendomi se ci sono passaggi che lui non ha capito e facendomi notare se c’è una parola che dovrei cambiare. Ogni tanto mi affido a parole che mi sembrano istintive, ma che sono “falsi amici”, come si dice per l’inglese. Makkox mi aiuta a preservare la comprensibilità anche nella visceralità».