«La Bce è pronta a fare tutto il necessario per preservare l’Euro». Se c’è un discorso che anche tra un secolo verrà utilizzato per ricordare gli ultimi trent’anni della storia dell’Europa e della Comunità europea questo è sicuramente il celebre “Whatever it takes”, pronunciato il 26 luglio 2012.
A scandire quelle parole, esprimendo in una sintesi estremamente efficace il senso delle istituzioni continentali e la strategia tracciata dalle stesse nei difficili anni della crisi economica, fu quello che Forbes definì nel 2018 come il diciottesimo uomo più influente al mondo e che per molti è ed è stato l’italiano più influente della sua generazione: Mario Draghi.
I nove anni di sua presidenza alla Banca centrale europea (Bce) che ci siamo lasciati alle spalle proprio nel 2020, con il passaggio di consegne a Christine Lagarde a fine 2019, hanno tracciato un solco senza precedenti nella storia dell’Unione, che ha attraversato forse il momento più delicato della sua storia nelle solide mani di un uomo che ha sempre messo la comunità d’intenti come presupposto fondamentale del suo operato.
Nato a Roma nel 1947, figlio d’arte in quanto il padre nel 1922 entrò in Banca d’Italia, Draghi si è laureato all’Università La Sapienza, completando poi i suoi studi presso il
Massachusetts institute of technology, uno tra i poli specialistici più importanti degli Stati Uniti.
Ritornato in Italia, dopo alcuni anni da professore universitario, ha vissuto una vera e propria svolta professionale nel 1983, divenendo consigliere dell’allora Ministro del tesoro Giovanni Goria, trampolino di lancio per il passaggio a direttore generale del Ministero del tesoro, avvenuto nel 1991.
Nei dieci anni in questo ruolo, Draghi ha di fatto rivoluzionato la politica economica italiana, dimostrando di saper leggere i tempi e direzionando le politiche dei governi nell’ottica della privatizzazione di molte aziende statali. Nel 2001, alla chiusura del suo operato, il peso del debito pubblico sul Pil nazionale si era ridotto di dieci punti percentuali.
Dopo una breve parentesi alla Goldman Sachs, dal 2005 ecco un’altra grande chiamata: quella a presidente della Banca d’Italia, in sostituzione di Antonio Fazio. Sono questi gli
anni in cui Draghi dimostrò la sua grande abilità nella gestione di situazioni economiche difficili e soprattutto la sua ascendenza sulla classe politica.
Le sue “considerazioni finali”, che come d’abitudine vengono lette a fine anno dal presidente della Banca d’Italia, divennero dei momenti di forte caratura politica, in cui Draghi, con la solita eleganza, indicava punto per punto le linee guida che i governi avrebbero dovuto seguire per rilanciare l’economia dell’Italia.
La presidenza fu il preludio al compimento del suo percorso, avvenuto nel 2011, con la
nomina a presidente della Banca centrale europea.
Il resto è storia recente: nei quasi nove anni alla guida dell’istituto finanziario continentale Draghi si è dimostrato grande mediatore, gestendo la difficilissima fase successiva alla congiuntura economica del 2008.
Da “fratello maggiore” dell’Italia, non ha mai fatto mancare “richiami” al suo paese d’origine in tutte le occasioni in cui l’operato del governo in carica circa i temi finanziari non lo convinceva, strizzando comunque l’occhio quando necessario. Il “quantitative easing” (strumento di politica monetaria volto a rilanciare l’economia colpita dalla crisi) del 2015 è stato forse la sua più grande intuizione tecnica, ma a Draghi si deve il merito di aver saputo tenere coesa l’Unione in una fase che avrebbe potuto causarne un grave indebolimento.
Tutto ciò, a ogni costo. “Whatever it takes”, appunto. E non è un caso che oggi, a 72 anni, il romano sia indicato da più parti come il profilo ideale per risollevare l’Italia nel “post Covid”.