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2013 – I discussi 94 anni di vita di Giulio Andreotti

Per sette volte Presidente del Consiglio, partecipò a ogni fase della vita repubblicana

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Giulio Andreotti, ovvero la storia recente del nostro Paese riassunto in una persona sola. Non c’è figura che più del “Divo”, morto nel 2013 all’età di 94 anni, possa dire di aver vissuto da protagonista un secolo (e forse più) della nostra nazione, tra monarchia, prima e seconda Repubblica.
Sette volte Presidente del Con­siglio, trentadue (32!) volte Ministro, ma anche e soprattutto l’unico uomo che ha legato indissolubilmente il suo volto a ogni grande passaggio della storia repubblicana.
Nato e morto a Roma, della capitale è stato una sorta di burattinaio, giacché conosceva ogni piega della politica nazionale e dei rapporti di potere, spesso abile a destreggiarsi con ironia e battute sagaci anche di fronte a scenari apparentemente insormontabili. Conobbe da vicino Alba nel 1990, come ospite alla Fiera internazionale del tartufo, e in quell’occasione definì la città langarola «una realtà in rapida evoluzione, un luogo con un’identità capace di colpire chi, come lui, era abituato a vivere in una grande metropoli».
Riassumere la sua vita (il tempo di lettura della pagina di Wi­kipedia a lui dedicata si aggira attorno ai quindici minuti) è esercizio praticamente impossibile. Tentando questa ardua impresa, si possono individuare cinque anni cruciali nella sua lunga parabola politica e pubblica.
Il primo è il 1939, in cui il ventenne Andreotti divenne direttore di Azione Fucina, la rivista di riferimento della Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana, punto di riferimento del cattolicesimo non fascista durante il regime. Quel­lo fu il primo momento di vero riconoscimento istituzionale, all’interno di un movimento che annoverava molti dei futuri padri costituenti di stampo democristiano.
Il secondo è il 1946, legato appunto al suo repentino inserimento nella scena politica. A volerlo fu Alcide De Gasperi, che ne sponsorizzò la nomina all’interno della Consulta na­zionale e poi l’elezione nell’As­semblea costituente, che lo avrebbe legato per sempre alla storia repubblicana.
Il terzo è il 1972, anno del primo governo Andreotti, du­rato appena nove giorni, in quanto non riuscì ad ottenere la fiducia in Parlamento. Per la prima volta fu riconosciuta in lui l’abilità di saper mediare e soprattutto di sapersi giostrare nei fragili equilibri politici di quegli anni. Poco tempo dopo, non a caso, coniò la celebre teoria dei due forni: la Dc, secondo lui, avrebbe dovuto alternativamente creare maggioranze con Psi e Pci, in base a quale tra i due partiti avrebbe offerto “il pane a un prezzo più basso”.
Il quarto è il 1992, che segnò la fine della Prima Repubblica e, in un certo senso, dei volti che la rappresentavano. An­dreot­ti ne uscì bene, con la nomina a Senatore a vita, ma perse l’occasione per divenire Presidente della Repubblica per­ché proprio in quelle calde settimane di attentati di stampo mafioso era stato ucciso Sal­vo Lima, di fatto l’“alter ego” andreottiano in Sicilia.
Questo non fu che uno dei tanti tratti discussi dell’An­dreotti politico. Non a caso, la quinta data della sua carriera, volutamente lasciata per ultima, è quella del 1980. A quell’anno, infatti, la Corte d’appello di Palermo fece risalire la fine dei suoi rapporti con il mon­do mafioso (e con quel­lo politico collegato a esso) in Sicilia e non solo.
Una figura amata e odiata, celebrata per la sua “flessibilità” e disprezzata per la stessa ragione, ma che, comunque la si voglia vedere, ha scritto un secolo di storia italiana.