In alto, lungo i tornanti, per guardare meglio le stelle. Per avere la sensazione di toccarle, d’essere sospesi nel blu insieme a loro. Mai avrebbero immaginato di salire in cielo davvero, come ci dicevano quand’eravamo bambini e la morte, difficile da spiegare, diventava un viaggio misterioso e delicato.
In cielo dopo i tornanti, a un’età ingiusta. Dopo aver soltanto assaggiato la vita. Era lì, da afferrare e da bere, da accarezzare con la spensieratezza, da aggredire con quell’energia che a vent’anni ti fa sentire invincibile. Un’età di confine tra classi diverse, l’adolescente e il giovane uomo, ma nei paesi, nelle piccole comunità, l’anagrafe è un dettaglio. Nella condivisione quotidiana d’un bar o d’un muretto, d’un cinema o di un campetto, si confondono libri di liceo e testi universitari, brufoli e baffi, calzettoni e collant: l’amicizia non ha età e si vivono le stesse emozioni, tutti legati anche attraverso le famiglie, perché sotto pochi tetti ci si conosce tutti e si cresce insieme.
Sotto pochi tetti, senti il pericolo più lontano. E se quei tetti sono in montagna, forse, ancora di più. Non solo perché è più difficile che il mondo cattivo s’arrampichi, ma perché il contesto stesso, il paesaggio stesso, ti fa sentire protetto: la montagna è pace, silenzio, purezza. Chi mai può turbarne la quiete? E invece, il destino non fa eccezioni, quando s’incattivisce s’insinua in metropoli caotiche e valli serene, attraversa terre dorate che guardano il mare e costoni verdi che sfiorano il sole. Non sembra vero che quella montagna sia diventata una tomba dopo una notte di stelle, non sembra vero che una delle curve che la segnano sia sfuggita e abbia ingoiato un “suv” con nove ragazzi a bordo e solo quattro ne abbia restituiti, spaventati e feriti, rubando gli altri a genitori che non conosceranno rassegnazione come loro non conosceranno futuro. Una strada fatta mille volte, la normalità di una piccola gita serale e la tranquillità dell’attesa in paese, poi un ritardo anomalo e un filo d’angoscia, un cellulare che suona, l’urlo straziante di chi è sopravvissuto nel buio di una scarpata, le lacrime e il dolore, l’angoscia di chi arriva prima dei soccorritori e chiede disperato al suo bambino, ché bambini si resta sempre, di svegliarsi. Cinque giovani vite, la gioventù di un paese spezzata come succedeva nei tempi di guerra.
Quei bambini erano Elia, che amava pescare ed era stato promosso alla seconda superiore, suo fratello Nicolò, che adorava il calcio e aiutava, insieme a lui, papà nell’azienda di famiglia, Samuele, che giocava a pallavolo, Camilla ch’era stata in Florida ai Mondiali di “cheerleading” e Marco, che era il più grande e guidava il “suv”, che lavorava nell’azienda di famiglia, che sorrideva sempre ed era innamorato della montagna. Di quella montagna in cui ha perso la vita. Non c’erano stati eccessi, nessuna ombra di sostanze maledette: lo sapeva chi conosceva il gruppo, l’hanno confermato gli esami medici: solo colpa del destino, d’una distrazione o d’un guasto, e solo, adesso, un dolore infinito che nelle piccole comunità appartiene a tutti, Camilla, l’unica ragazzina, oltre allo sport, amava il colore giallo e l’ambiente. Per questo, per ricordarla, saranno piantati degli alberi. Il suo ultimo gesto per un mondo che voleva più verde e meno inquinato, e che ha abbandonato troppo in fretta dopo una serata passata a guardare le stelle.