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«Io, campano con il cuore in Granda»

Il prefetto Giovanni Russo si racconta a IDEA dopo aver raggiunto il traguardo della pensione

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Stiamo camminando in via Roma, a Cuneo, quando, ad un tratto, ci affianca e ci sorpassa un’auto dei Carabinieri. Come noi, è di­ret­ta verso il palazzo prefettizio. Ci aspettiamo qualche si­tua­zione “complicata” da ge­sti­re. Invece, per fortuna, si tratta di un semplice controllo. Fuo­ri dall’imponente edificio che ospi­ta la Pre­fettura, la coda, co­mposta principalmente da persone straniere, è ordinata e rispettosa del­le norme anti contagio. Ci rivolgiamo alla poliziotta di turno in guardiola, ci presentiamo e spieghiamo che ab­biamo un appuntamento, per un’intervista, con chi, in quei giorni, era ancora in carica co­me prefetto della Granda, Gio­vanni Rus­so, andato poi in pensione il 1o settembre. Con­se­gnia­mo la carta d’i­dentità; microfono (e ma­scherina) alla mano, ci re­chiamo al primo piano dell’edificio, dove ci accoglie la segreteria del Pre­fetto. Un istante di attesa, ed ecco che la porta dell’ufficio prefettizio si apre. Il dottor Russo ci saluta con una “stretta” di gomito, come “va di moda” ai tempi del Covid. Qual­che battuta e il “ghiaccio” si rompe subito. Il Pre­fet­to, con il garbo che lo contraddistingue, ci invita ad accomodarci nel piccolo sa­lotto che impreziosisce l’ufficio. Siamo a di­­s­tanza di sicurezza e de­ci­dia­mo di to­glier­ci la
ma­sche­rina. La con­ver­sazione inizia a fluire.

Prefetto, la conosciamo come una delle autorità di maggiore spicco della nostra provincia. Ma chi era Giovanni Russo pri­ma di intraprendere la strada che l’ha portata ad acquisire que­sto importante incarico?
«Sono cresciuto in provincia di Napoli: mio padre era un dirigente di Banca d’Italia, mia madre faceva la casalinga. Con loro ho trascorso un’infanzia serena, maturata in un’epoca in cui il Pae­se aveva superato le difficoltà del Dopoguerra e si avviava ver­so lo sviluppo che ha poi de­ter­minato benessere diffuso».

Ci descriva quegli anni.
«In quel periodo non esistevano strumenti digitali e, pertanto, si studiava e si giocava con gli amici. A cosa? A calcio, la mia grande passione».

Era bravo?
«Guardi, non ho mai giocato a livello agonistico, però mi dicevano che ero anche bravino. Da buon mancino, cercavo di imitare quei giocatori che sapevano disegnare fantastiche parabole con il piede sinistro. Penso a Corso e Sivori. Questa passione mi portava a recarmi, appena possibile, al San Paolo per seguire la mia squadra del cuore: il Napoli».

La sua strada professionale, però, non ha incontrato il calcio.
«Negli anni delle superiori e, soprattutto, dell’Università, presi l’abitudine di leggere i quotidiani e seguire i fatti di attualità. Rimasi particolarmente colpito da una persona: l’allora prefetto di Napoli Riccardo Boccia, figura carismatica, molto rispettata, anche dai ragazzini. L’ammirazione nei suoi confronti ha sicuramente influenzato le mie scelte future…».

Così è arrivato il primo concorso pubblico…
«Dopo la laurea in giurisprudenza, partecipai a un concorso per un impiego in Prefettura: lo vinsi e ven­ni assegnato alla sede di Torino».

Come fu l’impatto con il Nord?
«Strano, perché, prima di partire, immaginavo di trovare una città estremamente industrializzata e, quindi, un po’ soffocata dallo smog».

Invece?
«Con stupore trovai una realtà completamente diversa: certo, tutto gravitava intorno alla Fiat, ma c’erano tanti spazi verdi e parchi e, poi, dei vialoni che sembravano autostrade. Per non parlare dei bus che, a differenza di quanto avveniva al Sud, rispettavano gli orari (ride, ndr)».

A Torino ha fatto carriera: prima è diventato vicecapo di Gabi­net­to del Prefetto e poi capo di Ga­binetto. Nel 2009 è stato no­mi­nato prefetto e inviato a Ori­sta­no, in Sardegna.
«Diventare prefetto è un sogno diventato realtà, anche per via delle difficoltà che ho dovuto superare lungo questo percorso».

Quali sono, in concreto, le re­sponsabilità di un prefetto?
«Siamo i rappresentanti dello Sta­to all’interno delle province, con re­sponsabilità, solo per citarne al­cune, in tema di ordine pubblico e coordinamento del­le Forze dell’ordine,
Pro­tezione civile, emergenze sanitarie, ge­stione dei mi­granti e violazioni del codice della strada».

Come si svolge la giornata tipo?
«Mi reco presto in ufficio per “smaltire” la posta e aggiornarmi sui principali fatti accaduti. Poi inizia una girandola di incontri, riunioni e analisi delle varie situazioni che si presentano. Una buona parte del mio tempo viene destinata alla conoscenza e al­l’ascolto del territorio e del­le comunità».

Nel 2013 è diventato prefetto di Cuneo. Che realtà ha trovato?
«Amo i paesaggi ondulati e con mia moglie avevamo visitato il Cuneese già parecchie volte. Ero preparato. Trovai una comunità molto laboriosa, istituzionalmente corretta e rispettosa della legge, cioè con trat­ti molto simili a quelli della mia personalità. L’impatto fu quindi estremamente positivo».

Il momento più difficile nei sette anni in Granda?
«Sono principalmente due: l’accoglienza dei migranti, che in alcuni frangenti diventò davvero delicata, perché, a fronte di una necessità di ospitare sempre più persone, le realtà pronte a farsi carico della loro accoglienza scarseggiavano. L’altro episodio è relativo all’ondata di maltempo che colpì la Granda nel 2016 riportando il pensiero di molti cuneesi ai tragici fatti del 1994: grazie alle opere di contenimento che vennero realizzate dopo quella tragedia e, so­prattutto, all’unità di intenti si riuscì a superare l’emergenza in ma­niera estremamente positiva».

Il momento più bello?
«Per fortuna sono molti. Se devo sceglierne uno, dico questo, ovvero le ultime settimane prima della pensione, in cui ho ricevuto tanti attestati di stima e amicizia, se­gno, evidentemente, che il mio ser­vizio alla comunità è stato utile e che sono riuscito ad arrivare al cuore delle persone».

Ha stretto un rapporto unico con i Sindaci.
«Sì, ci ha legato un rapporto stretto e leale, sempre molto umano».

Dal 1o settembre lei è in pensione. In che realtà si troverà a operare il suo successore?
«In una provincia attiva, intraprendente e felice, anche dal punto di vista dell’ordine pubblico, tra le mi­gliori quindici d’Italia sul fronte dello sviluppo economico, caratterizzata da benessere, occupazione e imprenditori che non fanno mai il passo più lungo della gamba. Negli ultimi anni ha conosciuto una crescita straordinaria che ha saputo cancellare molte delle criticità che si trovano invece altrove. Peccato soltanto per la pandemia di Covid, che ha minato alcune certezze».

Le maggiori criticità?
«Occorre mantenere alta l’attenzione sia sul fronte del coronavirus sia su quello dei migranti e investire nelle aree che ne hanno più bisogno».

Il suo luogo, cuneese, preferito?
«Le Langhe con Alba, il Roero, Sa­luzzo, Mondovì e la sua piazza, Prato Nevoso, la reggia di Val­casotto, ma potrei proseguire al­l’infinito. Conosco molto bene la provincia di Cuneo e mi piace nel­la sua interezza, in tutta la sua eterogeneità, caratteristica che la rende unica».

Quanto è stata importante la famiglia nella sua carriera?
«Devo molto a mia moglie Maria Luisa e a nostra figlia Rebecca. Per stare al fianco di persone che ricoprono incarichi come il mio occorrono pazienza e comprensione, qualità che a mia moglie non mancano. Lei è molto solare, aperta, solidale e disponibile e, per di più, sa cucinare benissimo: insomma, è la persona perfetta per me».

Come si godrà ora la meritata pensione?
«Tornerò, con tutta la famiglia, a Torino. Nella vita di tutti i giorni sarò un po’ “spiazzato”, perché il lavoro mi mancherà sicuramente. Mia moglie credo sia preoccupata di questo o, forse, del fatto che mi avrà tutto il giorno per casa (ride, ndr), ma la “normalità” non mi spaventa, perché sono abituato, e mi piace, la vita “normale”».

Ha il rimpianto di non essere diventato prefetto di Napoli, la sua città di origine?
«Non nego il fatto che mi sarebbe piaciuto diventarlo, così come, al contempo, nonostante il forte legame con la provincia di Cuneo e il Piemonte, sarei tornato con piacere a vivere a Napoli. A volte, però, anche i sogni che non si realizzano danno soddisfazione».

Si impegnerà in politica?
«Credo proprio di no. Vorrei però che la po­litica, in generale, ritrovasse e tornasse a farsi guidare dallo spirito che contraddistingueva i padri costituenti. L’Italia ne ha bisogno. Ciò a cui non rinuncerò sicuramente sono le visite in provincia di Cuneo e, ovviamente, le partite del mio Napoli».