Ex chitarrista, paroliere e cantante dei Timoria, cantautore, scrittore, docente universitario, conduttore di programmi televisivi e radiofonici, produttore di vino (nonché estimatore), cardiopatico. Omar Pedrini è troppe cose per pensare di intervistarlo riguardo tutto ciò di cui si interessa. Più facile partire dal contingente, ovvero la sua prossima partecipazione al “Pavese festival” (maggiori dettagli nel box della pagina a lato).
Partiamo da Pavese e dalle sue ultime parole: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi” Più passano gli anni e più sembra un testamento…
«L’ombra del suicidio c’è da sempre nella sua poetica, così come le sue delusioni amorose e tutto ciò che lo porterà a dire che vivere è un mestiere. Quella è una frase apparentemente scarna e minimale, ma chi sa seguire il suo percorso capisce che quel momento estremo è maturato dopo anni.
Il concetto del perdono, da chiedere e concedere, è bello, no?
«Sì, mi piace. Mi ha anche ricordato in qualche modo, se mi è permesso il parallelo tra due giganti, il messaggio di Ennio Morricone e quel suo “non voglio disturbare”. Le sue parole mi hanno fatto pensare a quell’ironia tagliente e sanguinolenta o sarcastica di Pavese».
Lei è un artista difficile da inquadrare; ogni album fa storia a sé. Chi glielo fa fare?
«Quando ero leader dei “Timoria” le canzoni erano mie, così come la musica, anche se a cantare era un altro. Da quando siamo partiti, a fine anni ’80, il nostro stile era non avere stile. Non volevamo essere, come è capitato a tanti colleghi, i “Clash italiani” o i “Rolling stones italiani”. Noi avevamo il nostro percorso e questo non avere uno stile me lo porto dietro ancora oggi. Posso saltare da un acustico delicato con dei reading, come faccio spesso, a concerti rock travolgenti come la chiusura dell’ultimo tour al “Fabrique” di Milano. Contaminazione è la mia parola. Sono stato per molti anni direttore e ideatore del “Brescia Music Art”, il festival della contaminazione fra le arti dove ogni artista si esibiva nella sua arte secondaria: c’erano scrittori che cantavano e cantanti che scrivevano, mostre di Battiato e Jovanotti… La contaminazione tra i generi mi piace molto, anche se l’ossatura del mio percorso è sempre stata legata al rock».
Contamina anche a livello professionale: fa un sacco di cose diverse…
«Perché mi piace e anche perché ci sono stato un po’ costretto: 15 anni fa mi hanno imposto lo stop dopo la seconda operazione al cuore e mi hanno vietato di cantare, cosa che facevo da quando avevo 18 anni. A 23 anni ho partecipato al mio primo Sanremo; ho sempre fatto questo mestiere e mi sono dovuto reinventare una vita per dare da mangiare ai miei figli e a mia moglie. Quindi ho iniziato questo Master in comunicazione musicale, alla Cattolica, dove insegno da 15 anni e il percorso accademico mi aiuta a trovare ancora più contaminazioni. I miei dischi ne sono pieni, così come le mie esibizioni, spesso anche in forma di reading. Sono stato uno dei primi a portare in giro Pasolini, Majakovski, Neruda. Mi ricordo che nei primi anni ’90 a volte la gente mi derideva perché volevo leggere delle poesie durante i concerti. Oggi il pubblico è pronto per queste cose, ci sono anche tanti festival che hanno seguito un po’ la strada del mio Brescia music art, che forse era un po’ troppo avanti per l’epoca visto che lo feci dal 1998 al 2001. Anche per quanto riguarda i generi, per tornare alla domanda, se mi nasce una canzone hard rock e poi una da pianoforte e voce, più intimista, non mi pongo il problema che chi ascolta il disco magari possa apprezzare l’intimismo e non il rock. Ho sempre cercato di buttare giù le barriere sia politicamente, nel senso più nobile del termine, sia nella mia musica, nell’arte. È questo che mi piace e poter parlare con Ferlinghetti che mi racconta di quando lui e la Pivano si incontravano. La Pivano, questa figura straordinaria, sodale di Pavese… Allora la letteratura americana era per l’Italia poca cosa. Ci voleva la Pivano per tradurre gli americani. Quello era già un atto poetico rivoluzionario. La traduzione, poi, è contaminazione: un traduttore si contamina, non ha paura del nuovo o del diverso o di ciò che ci è esterno, barbaro nel senso etimologico del termine. Io amo il funky, ballo James Brown, ballo i Clash».
Non le permettono di cantare ma le consentono di ballare? O lo fa all’insaputa dei medici…
«Con la terza operazione sono riusciti a spostarmi un po’ la aorta dalle corde vocali e così, cinque anni fa ho ricominciato a cantare e adesso faccio circa 140/150 concerti all’anno. Quando mi hanno detto “puoi cantare”, ho abbandonato la televisione e la radio. Facevo dei programmi culturali sull’arte, sulla musica: sebbene lì guadagnassi meglio e la musica fosse in crisi e il mercato discografico defunto, non ho esitato un attimo. Continuo invece a insegnare all’università perché è una palestra: dover insegnare costringe a studiare e a tenere la mente occupata. Ho ricominciato a cantare, testardamente perché sono bresciano e ho un carattere abbastanza tosto, come i cuneesi. Non per caso sono cittadino onorario di Albaretto della Torre in Alta Langa, in zone partigiane insomma. E quindi ho detto “La musica è la mia vita, la mia passione” poi è arrivato questo “coniglio dal cilindro” della vita, ossia Noel Gallagher che mi ha fatto lavorare per la sua agenzia a Londra, ha prodotto l’album che ha sancito il mio ritorno e mi ha anche regalato una canzone, cosa che non fa praticamente mai. È uscita insieme alla canzone che ho scritto con Ferlinghetti.
Lei spazia da Gallagher a Ferlinghetti, passando per Luigi Veronelli…
«Gino (Veronelli, ndr) è stato il mio maestro di vino e di anarchia. Ricordo benissimo le gite in Piemonte, terra a cui dedico “Fino in fondo” nell’album “2020”, disco profetico di 25 anni fa in cui invocavo un ritorno all’umanità e alla natura che concretizzavo nel bicchiere di vino. Già venticinque anni fa parlavo della fine del pianeta, dello sfruttamento della Terra, dell’inquinamento, delle malattie che ne conseguono. Per queste previsioni azzeccate ultimamente la stampa mi ha chiamato “profeta”, ma io dico sempre che se lo avessi saputo avrei previsto lo scudetto del Brescia, non questa roba qua. La realtà è che ero appena diventato papà e avevo venticinque anni, quindi immaginai come sarebbe stato il mondo quando mio figlio avesse avuto venticinque anni, nel 2020 appunto. Ma ora che ci siamo non mi viene certo da celebrarmi, solo da piangere e pregare. Non sono Nostradamus, non sono un profeta. Sono un musicista, un “pirla” qualunque, però se ci avevo azzeccato anche nei dettagli significa che, come me, lo potevano sapere anche i politici, le multinazionali e invece non hanno voluto fare niente. Ecco perché quella che sto scrivendo ora è una preghiera».
Uscirà un suo album a breve?
«A ottobre uscirà il live (immagini e musica) dell’ultima tournée, il concerto al “Fabrique”, che è stato incredibile. Poi, a gennaio 2021, il mio nuovo disco da solista, che verrà anticipato da un singolo a dicembre».
I problemi di salute che ha avuto l’hanno cambiata più come artista o come uomo, ammesso che ci sia differenza?
«Non c’è differenza. Fellini diceva “Sono autobiografico anche quando parlo di una sogliola” e questo è vero anche per me. Ho cercato di raccontarlo anche nella mia ultima pubblicazione “Angelo ribelle” per “La nave di Teseo”, dove spiego quanto sia difficile raccontare quello che vedono i miei occhi, ma questa è per me la forma d’arte più spontanea, quella che mi viene più naturale, e al tempo stesso la più pulita, la più pura. Nei miei lavori ci sono anche i dolori del giovane Omar (ride, ndr), compresa questa sfortuna della malattia: era il 2004 avevo da pochissimo vinto il premio speciale per il miglior testo a Sanremo, stavo partendo per un tour che mi eccitava molto e mi hanno trovato svenuto per terra e salvato per miracolo. Di lì ho scoperto del problema congenito al cuore».
È per via di questa concentrazione di problemi che ha scritto una biografia così giovane?
«Insomma, non proprio da giovane: “Cane sciolto” l’ho scritto quando ho compiuto cinquant’anni. Però ho questa spada di Damocle sulla testa che in realtà abbiamo tutti, ma il mio crine di cavallo è un po’ più sottile di quello degli altri. Come si dice: l’uomo saggio deve vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo e imparare invece come se non dovesse morire mai. Così dovremmo vivere tutti. Io ho affrontato tre operazioni così importanti, che da un certo punto di vista mi hanno anche fortificato: di certo ora non perdo più tempo in cazzate. Ce l’ho fatta anche grazie a una forte spiritualità che era già insita in me, fin da giovane (a 24 anni ho passato un anno in un ashram indù) e questo probabilmente mi ha aiutato ad affrontare le lunghe degenze dopo le operazioni a cuore aperto con maggiore serenità. Di certo non mi sento una vittima e devo ancora fare tante cose. La mia è stata una vita molto intensa, forse i miei cinquanta corrispondono a ottanta normali. D’altronde è un po’ l’età biologica del mio cuore».