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Campione di tuffi senza bandiera

la storia del cuneese Eduard Timbretti Gugiu

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La storia che raccontiamo in queste pagine ha una narrazione fitta, nonostante sia condensata in appena diciotto anni di vita. Una storia che mescola scelte coraggiose e talento sportivo, diritti civili e orgoglio. Un orgoglio esclusivamente a tinte tricolori, perché il protagonista si sente da sempre italiano a tutti gli effetti, nonostante la legge per anni lo abbia “definito” diversamente.

Se dovessimo individuare un pun­­to di partenza, potremmo scegliere idealmente il 1993, anno in cui Sandro Timbretti Gugiu e la moglie Michela scelsero di trasferirsi dalla Romania in provincia di Cuneo per cercare, come molti altri loro connazionali, una vita mi­gliore.

Erano gli anni delle grandi migrazioni balcaniche verso l’Ita­lia; migrazioni che culminarono l’8 agosto 1991 con lo sbarco a Bari di 20 mila albanesi a bordo della nave Vlora.
Nel 2002, nove anni dopo l’approdo nel Bel paese, Sandro e Michela festeggiarono la nascita di Eduard, il loro secondogenito che, proprio come il fratello maggiore Robert, mostrò da subito una grande passione per l’acqua.

Oggi Eduard, astro nascente del mo­vimento italiano dei tuffi, vi­ve a Cuneo ed è uno dei vanti principali del mon­do sportivo cuneese; fin qui, però, il suo nome è balzato agli onori della cronaca nazionale non solo per i risultati spor­tivi. Per quattro anni, infatti, Eduard, in attesa della cittadinanza, ha vinto titoli nazionali a ripetizione senza però mai figurare nelle classifiche italiane, da cui era escluso in quanto “straniero”. Una storia fortunatamente a lieto fine, benché molto travagliata.

Eduard, partiamo dal presente: come ha vissuto la quarantena forzata?
«Non è stato facile, perché la mia disciplina sportiva, a differenza di altre, non è così semplice da praticare. Anche in condizioni “normali”, sono po­chissime le piscine attrezzate per i tuffi, tanto che genericamente disputiamo le no­stre gare nei soliti quattro-cinque impianti che ormai conosciamo a memoria. Di fatto, ho potuto lavorare soltanto sulla preparazione fisica; in questo senso, ho cercato di arrivare pronto alla tanto attesa riapertura. Di positivo, c’è stato il mio ritorno in pianta stabile a scuola (ride, nda)».

Come riesce a conciliare attività sportiva e studio?
«Mi alleno a Torino quasi tutti i giorni; quindi, le assenze sono pa­recchie. Prima del “lockdown”, ne avevo già fatte circa cinquanta, tutte per ragioni sportive. Da allora, per via dello stop forzato, sono tornato a frequentare stabilmente le lezioni, seppure in modo “virtuale”. Anche i professori ci han­no riso su, ma è stato molto positivo. Tra pochi giorni inizierò l’ultimo anno di liceo scientifico (al “Giuseppe Peano” di Cuneo, nda): non ho comunque intenzione di mettere da parte lo studio».

Pensando al futuro sportivo, dove si vede tra qualche mese?
«Il futuro è un’incognita: il rinvio dei Giochi olimpici ha determinato, a cascata, lo slittamento di numerose competizioni. C’è poi l’incertezza legata al fatto che alle nostre gare prendono parte atleti provenienti anche da aree geografiche in cui il coronavirus è tutt’altro che un lontano ricordo. Non sarà semplicissimo riorganizzare la prossima stagione agonistica».

Ora, facciamo un “salto” nel suo passato. Com’è nata la passione per i tuffi?
«Mio fratello maggiore era nuotatore e io cercavo di imitarlo; a tre anni ero già iscritto al primo corso di nuoto, nella piscina comunale di Cuneo. Invece di stare con gli altri bambini, però, preferivo lanciarmi da bordo vasca. Mio papà, osservandomi, provò a propormi all’istruttore di tuffi di Cuneo e, grazie anche a un pizzico di insistenza, riuscì a farmi provare con i tuffi già a quattro anni, nonostante fino a sette non si potesse. Da quel momento non ho più smesso».

E, oltre a non smettere, ha an­che centrato risultati di livello.
«Credo di aver vinto diciotto volte le gare dei Campionati italiani di categoria, anche se onestamente non le ho contate. Ogni volta, però, dovevo mettermi accanto al podio e lasciare spazio ad altri…».

Cioè?
«Comparivo nelle classifiche ma, non essendo riconosciuto come cittadino italiano, non venivo mai premiato. O meglio, ero premiato per la vittoria della gara, ma ero escluso dalla classifica degli italiani. Di fatto, ero come un ospite straniero che partecipava a una gara nazionale».

Sono stati anni duri?
«In quel periodo gareggiavo in modo spensierato: volevo solo divertirmi. L’unico rammarico nasceva quando, pur avendo fatto punteggi importanti, vedevo sul podio coetanei che erano arrivati molto indietro rispetto a me. So bene, però, che loro, così come me, non ne potevano nulla. Anzi, molte volte li ho visti mortificati, quasi sentendosi in colpa».

Una sorta di agonia terminata il 20 giugno 2019, quando è diventato cittadino italiano a tutti gli effetti. Che ricordi ha?
«È stato un sollievo, perché aspettavamo la cittadinanza da quattro anni. Finalmente potevo competere per davvero con gli altri e potevo ambire a rappresentare l’Italia in campo internazionale».

I motivi della lunga attesa?
«Le nuove leggi in materia di integrazione. Nel mio caso, provavo un pizzico di rabbia ve­dendo altri tuffatori che, per ra­gioni ignote e su cui comunque preferisco sorvolare, riuscivano a portare a termine le pratiche in pochi mesi».

Crede che questo ritardo possa riflettersi negativamente sulla sua carriera agonistica?
«Penso di no, perché fortunatamente sono riuscito a ottenere la cittadinanza prima di diventare “Senior”. Proprio in queste settimane ho disputato le mie ultime gare nelle categorie giovanili e ora potrò lanciarmi nel mondo dei “grandi”. La conseguenza più significativa determinata dalla situazione che ho vissuto è stata l’impossibilità di prendere parte a manifestazioni internazionali, fondamentali per potersi confrontare con movimenti più avanzati di quello italiano e, soprattutto, per testarsi in gare in cui la pressione è più alta. Credo che questa mancanza possa farsi sentire».

In realtà, sembra già riuscito a colmare parte del divario…
«Sicuramente sì. In questo 2020 ho già potuto partecipare ad alcuni stage e gare con la Nazionale, avendo l’opportunità di confrontarmi con i “big” . Sono stati mo­menti davvero formativi che mi hanno permesso di vedere da vicino le stelle di questo sport, come Tania Cagnotto e il britannico Tom Daley, il mio idolo».

Il suo sogno nel cassetto?
«Disputare un’Olimpiade. Magari già la prossima e poi, perché no, raggiungere la finale».

In caso di vittoria internazionale canterebbe l’inno di Mameli?
«Ovviamente sì! Lo conosco già da diversi anni (ride, nda)».