“Le parole non bastano”. Infatti Francesco Guastoni le ha corredate con la musica, creando un brano che si sta ritagliando un significativo spazio sulle piattaforme musicali online. Un motivo in più per conoscere meglio lui e la sua arte.
Guasto, iniziamo dal nome. Si tratta del classico appellativo di paese derivato dal cognome o c’è qualcosa di più?
«Vivo a Cervere, in un paese piccolo con il tuo nome vero non verrai mai chiamato. Da sempre io sono Guasto, per via del mio cognome, Guastoni. Negli anni però ho scoperto che in questo c’è qualcosa che mi appartiene: non di rado sono quello controcorrente, che non funziona. Quando ho pensato ad un nome d’arte non sono andato lontano, mi sono
ritrovato in quello che usano i miei amici da quando ero piccolo».
In questa avventura del suo primo brano singolo è affiancato da un produttore con grande esperienza, Luca Magra. Quali suggerimenti le ha dato?
« Di non farmi tirare e attirare troppo dal mercato. In questo momento i discografici quasi lasciano da parte la canzone in sé per cercare la sfumatura, il suono che vende di più o l’arrangiamento di moda e il rischio è quello di avere un risultato immediato quanto effimero. E soprattutto si rischia di non trovare mai la propria strada e il proprio modo unico di guardare il mondo, che forse è la sola garanzia possibile per avere un certo successo».
A quale genere appartiene il brano “Le parole non bastano”?
«Se dovessi proprio catalogarlo sceglierei il genere “indie”. Sono pezzi che raccontano la vita di tutti i giorni, le vicende quasi banali, come l’andare in farmacia, il viaggiare in autobus o il prendere una tachipirina. Però se il cantante è bravo riesce a far risuonare qualcosa nell’ascoltatore, a farlo immedesimare nelle sue giornate. Oggi si tende ad ascoltare i cantastorie più che i cantautori. Se penso al passato, a Venditti, Bennato o anche a De André, si parla di argomenti spesso poetici, di temi aulici. In questi anni un brano di grande successo può tranquillamente parlare di che cosa si mangia a colazione».
Parliamo del singolo, “Le parole non bastano”. Come è nato?
«Il pezzo nasce ed è in primis un regalo di compleanno per la mia ragazza. C’erano cose che aspettavo di dirle da tanto e non ho modo migliore per spiegare i miei sentimenti che mettere in musica i pensieri. Sapere che ora più di quattromila persone l’hanno già ascoltata fa un certo effetto. Perché ho scelto questa canzone tra le tante che ho scritto? Perché suonava meglio: un pezzo che funziona nasce dove c’è spessore».
Ha in programma di far uscire altri brani?
«Vedremo. Si tratta di progetti che richiedono un investimento non indifferente e ora che la fruizione della musica è soprattutto online non è facile emergere e trovare una propria nicchia. Vedo questo successo già come un buon risultato perché la musica è parte della mia vita, è un pezzo di me. Scrivo perché non posso farne a meno, per questo, ad di là del consenso che possono ricevere i miei brani, suonare è qualcosa che non finirà mai per me. Spero che la passione mi porti lontano, ma intanto sto con i piedi per terra. I miei genitori mi hanno sempre spinto a studiare, a suonare e a impegnarmi al massimo, al di là del risultato ottenuto. A otto anni, quando ho iniziato il conservatorio, spesso avrei preferito una partita di calcio alla lezione di pianoforte. Oggi invece ringrazio i miei genitori per la loro ostinazione, loro vedevano già avanti, intuendo quale grande regalo mi stavano offrendo. Sono felice di vederli soddisfatti: hanno capito che quella musica che un tempo era un dovere ora l’ho fatta mia».
Qual è il valore aggiunto o i limiti di essere nati in provincia? Cosa offre il nostro territorio in termini di ispirazione e di opportunità?
«Limite è il fatto che sei lontano da tutto e fuori del mondo, già a Torino ci sono maggiori possibilità di farti conoscere nei locali e più opportunità per quanto riguarda la parte tecnica. Valore aggiunto è che se vuoi qualcosa devi andare a prendertela. La provincia aumenta la voglia di impegnarsi a chiamare, a mandare pezzi, a viaggiare. Vivere in periferia amplifica la voglia di rincorrere il tuo sogno».
Esiste secondo lei una narrazione del nostro territorio che può essere interessante a livello nazionale? Penso a Calcutta o Carl Brave che cantano di Roma quasi in dialetto e altri che hanno fatto della loro appartenenza a una determinata zona geografica un “leitmotiv” dei loro pezzi.
«Questi cantautori vengono da città più grandi. Roma è emozione allo stato puro e soprattutto a tutti gli italiani evoca qualcosa. Sarebbe forse più difficile cantare i vicoli di Cuneo, si raggiungerebbe una fascia più limitata di persone. Ma in fondo ogni cantautore nei suoi pezzi evoca la terra dove è nato. Nel dubbio, io ho scelto di cantare l’amore, una questione che in qualche modo ci riguarda tutti».
Nel testo dice: “le battaglie si vincono con i sogni”. Che cosa intende?
«Parlo della storia, ma ognuno la interpreta come vuole. Quello che intendevo è che questa ragazza io la volevo da morire, ho combattuto veramente, non a pugni e schiaffi ma con la costanza e la serietà. Quando si ottiene quello che si desidera in questo modo i risultati sono doppiamente soddisfacenti perché dimostrano che cosa puoi fare, da solo. Non sono una persona che si aspetta tutto subito, so che i sogni viaggiano con i loro tempi. I sentimenti poi sono la cosa più lenta di questo mondo».
La troviamo sui social?
«Sono della vecchia scuola, preferisco l’ascolto dal vivo. Lo so, è strano, vivo nel 2020 e detesto i social. Vedi, a volte davvero non funziono».