Spesso, troppo spesso purtroppo, le storie di questa rubrica affondano radici nella cronaca nera. Morti ingiuste, ritratti commossi, sofferenze, voci dimenticate, disagi: li scegliamo per incorniciare ricordi, per alimentare riflessioni o indicare esempi, ma resta quello sfondo malinconico, quel tono tragico che perfino investigatori incalliti faticano a scrollarsi di dosso. Per questo cerchiamo a volte di sopperire con trame dolci e lieti fini che sembrano usciti da libri di fiabe o cerchiamo di diffondere fatti perduti, ingoiati dalla voracità dei media e sommersi nel mare infinito del web. La storia di oggi è un intarsio, è una favola ed è poco conosciuta. E, come se fosse di Esopo, protagonisti sono gli animali. C’erano una volta due vecchi elefanti che si chiamavano Tang Mo e San Mueng, vivevano da anni allo zoo a Phuket, in Thailandia, e tutti i giorni, per tre volte, erano costretti a esibirsi in spettacoli d’intrattenimento per i visitatori.
I grandi applaudivano, i bimbi si incantavano e a tutti sfuggiva non solo il velo di tristezza sui loro occhi, ma anche il pungolo che il domatore utilizzava per ottenere balletti, coreografie e altri esercizi circensi. A svelarlo, in un documentario di denuncia, era stata l’associazione Moving Animals e il video aveva addolorato e indignato: stessa sorte, per altro, toccava a un povero cucciolo di nome Dumbo. Non hanno fatto in tempo a salvarlo, l’elefantino è morto poco dopo, mentre Tang e San hanno trascinato il loro avvilente destino con dentro un dolore in più per il piccolo amico. Finché non è arrivata la pandemia che li ha trasformati da attrazioni in pesi, perché lo zoo, deserto, ha esaurito in fretta i fondi e ha cominciato a liberarsi degli animali, accettando, per i due, l’offerta di Elephant Nature Park di Chiang Mai, un santuario e centro di riabilitazione che accoglie e cura pachidermi in difficoltà. Tang e San, così, dopo anni di prigionia, scoprono il piacere di muoversi tranquilli in ampi spazi verdi. Raccontano che appaiono ancora intimiditi, disorientati, spaesati. Perché dopo aver passato gran parte della vita dentro uno zoo, perfino il primo soffio di libertà può diventare un ostacolo, ma serve solo tempo per ritrovare autonomia e fiducia, per abituarsi a una realtà più bella, ma al momento sconosciuta, ed è bello immaginare i loro ultimi anni senza catene reali e metaforiche, senza gabbie a sbarrare l’orizzonte, senza pungoli ed esibizioni obbligate. Una bella fiaba, dove ci sono anche folletti buoni e orchi cattivi. I folletti buoni si riuniscono sotto le bandiere di Elephant Nature Park e di Save Elephant Fondation che si stanno attivando per salvare tanti esemplari perché la storia di Tang e San non è isolata: la pandemia ha messo in crisi il turismo della Thailandia e gli elefanti, attrazioni di primo piano, ne hanno patito le conseguenze, abbandonati (e qui appaiono gli orchi) in situazioni precarie, senza cibo né cure, restituiti ai proprietari dei villaggi dove subiscono spesso nuove restrizioni o maltrattamenti, lasciati senza guida in un mondo che non ha confini dopo aver conosciuto solo recinti. Le organizzazioni di sostegno ne hanno salvati duemila, si occupano di loro giorno dopo giorno e lo fanno con le loro forze ma anche con la solidarietà di tutto il mondo. Del problema degli elefanti thailandesi i media avevano parlato poco, giusto qualche inchiesta sul turismo o qualche articolo su riviste, siti o almeno rubriche di settore: noi abbiamo voluto raccontare una favola moderna, di riscatto e di libertà. E se c’è una morale, come per gli animali di Esopo, è che la speranza non deve mai essere persa e che anche i momenti più bui posso diventare un’opportunità.
Una storia di libertà
Come nelle fiabe di Esopo, animali protagonisti: Tang e San due elefanti si liberano dalla prigionia dopo anni di maltrattamenti