Ha ragione chi sostiene che il tempo è uno stato d’animo, che sono le emozioni e i pensieri a spingere le lancette. Ha ragione perché due giorni di relax al mare non sono gli stessi di due giorni ad aspettare un responso medico: l’ansia dilata le ore, ruba tranquillità, ingarbuglia la mente, agita speranze e timori. L’ho appena sperimentato e scelgo di raccontarlo per invitare a tenere alta l’attenzione sul Covid, perché è tra noi anche se qualcuno lo scorda e perché se lo sfiori, semplicemente lo sfiori, comprendi meglio la necessità della precauzione e del rispetto che davanti a un salotto tv o a un elenco di numeri che impressiona ma resta astratto: difficile realizzare, se non si è coinvolti, che ogni cifra ha un volto e il totale somma storie di vita, riassume tensioni e lacrime, dolore e solitudine, odora di medicine e disinfettanti, è rischiarata dal neon delle corsie d’ospedale e listata dal nero del lutto. M’avventuro, perciò, con una vicenda al cospetto minuscola, sapendo bene che la salute d’un singolo è notizia per familiari ed amici, ma l’esperienza vissuta può interessare centinaia di lettori.
Il Covid era preoccupazione filtrata dall’informazione, era un insieme di rinunce e abitudini nuove. Era rabbia per negazioni e ridimensionamenti, ammirazione davanti a trincee mediche, solidarietà per chi ha sofferto o perduto affetti. Era un’ombra rasente che all’improvviso s’è allungata fino a oscurare l’anima. Il Covid ha bussato al mio posto di lavoro, contagiando un collega con cui ho diviso spazio e tempo e in un istante la normalità è stata stravolta: ufficio chiuso per sanificazione e dentro il dubbio d’essere positivo. Non solo mio, ma di tutto un gruppo di lavoro, difatti convocato per effettuare il tampone. Fila, infermieri e dottori bardati come astronauti, il fastidio di pochi secondi per un lungo cotton fioc nelle narici e nella gola, l’ansia lunga quarantott’ore per sapere se è un brutto sogno. A che pensi in quelle ore pur cercando invano normalità? Paradossalmente poco a te e a come starai, anche se ti sorprendi a riannodare racconti e ti viene in mente con un sussulto che non tutti, pur giovani e sani, se la sono cavata con cure leggere e quarantena. Pensi, soprattutto, alle persone che hai attorno e che se risultassi positivo difficilmente scamperebbero al destino perché dentro la porta di casa le barriere crollano e la condivisione è naturale. Stai attentissimo, adesso ti metti in disparte, ma in cuor tuo rifletti su come possa essere tardi. Eppoi pensi alle persone che hai incontrato e che potresti aver messo a repentaglio. Incredibile quanti sono anche se tante cose, proprio per la situazione, le eviti: una pizza ristretta a pochi amici, una corsa nel parco con altri, i quotidiani incontri di lavoro. Ti senti quasi in colpa e ti chiedi se sei sempre stato davvero attento. Tra l’altro, a loro volta, quelli hanno visto altre persone. Un amico che hai visto insegna, che succede con la classe? E come faremo, in famiglia, per la spesa e altre ovvietà, se tutti fossimo contagiati e quindi isolati? Tremi, anche se ti sforzi di sdrammatizzare, fino al responso. Negativo. Io e gli altri. Sollievo, ma il segno resta. In ufficio siamo tutti più scrupolosi e nessuno sbuffa se l’inviti a indossare la mascherina. Telefono al collega positivo, soffre ma nemmeno lui pensa a se stesso: è dispiaciuto per noi, anche se rincuorato dal risultato, e scosso per la sofferenza più grande che vede attorno. Ci chiede di raccontarlo a più persone possibile, perché sia da monito, e anche per questo, per una volta, ci permettiamo un uso personale della rubrica.
Quei pensieri nell’attesa
Pur essendo un tema sulla bocca di tutti, il covid rimane qualcosa di lontano sino a quando non si palesa la concreta possibilità di essere positivi, diventando motivo di preoccupazione più pensando agli altri che a sé