All’inizio di tutto, sai solo una cosa: che c’é, da qualche parte, lì in mezzo agli alberi. Lo sai perché te lo aveva detto Celeste Massucco da Castagnito, storico vigneron della frazione San Giuseppe: pochi anni fa, quando gli avevi chiesto i motivi attorno alla scelta di chiamare “Cavaliere della Serra” l’ottimo spumante prodotto dalla cantina di famiglia. E da lì, passando per il vino -elemento imprescindibile di questa terra, e forse anche di questa storia- si era aperto un mondo: un mondo di forma dorsale, che collega il punto in cui qui sorgeva probabilmente il “Castrum Serrae”, giungendo sino a Magliano Alfieri.
La località San Pietro, per la precisione: e il luogo in cui sorge ora quel remotissimo pilone che porta il nome del primo pontefice. E lo sai, sì, ancora: perché te lo hanno detto gli Amici del Castello Alfieri, nobile associazione che ha in mente qualcosa di ben preciso sul “cosa fare” qui, per restituire memoria e lignaggio ad un sito dai mille significati.
Resta una necessità, assimilabile al dovere della buona cronaca e ad una curiosità sempre più morbosa: e sì che, come in Apocalypse Now, ci si immedesima un po’ nei panni di Martin Sheen alla ricerca del Colonnello Kurtz. Solo che, al posto del fiume Nung, ci sono queste colline del Roero così rivolte al Tanaro: e si fanno altri incontri, errori, scoperte, rivelazioni, accompagnate dagli appunti che ti parlano sommessi di questo complicatissimo San Pietro.
E nessuno che spara: almeno speri, mentre sei lì tra le gaggie, mentre due piccoli cani (da caccia?) passeggiano per la campagna. Fogli in mano, tra i sentieri: le pagine de “Il monte dei sette castelli” edito nel 1989 dalla Pro Loco maglianese, che ti ha dato Cesare Giudice, quando ti ha annunciato il progetto di una ristampa ragionata di questo volume. Ma anche le preziosissime note di Carlo Sacchetto, che degli “Amici del Castello” è il leader: e, ovviamente, i riferimenti e le mappe del “Repertorio Storico” di Baldassarre Molino, per il quale ogni amante del Roero dovrebbe dire un “grazie” ogni mattina per il grandissimo lavoro di ricerca da lui svolto nel corso degli anni.
Scopri un sacco di cose, su questo San Pietro, mentre ti lanci in questa missione un po’ estemporanea: studiando il percorso apparentemente più semplice e meno avventato, lasciandoti trasportare lungo sull’omonima via che parte da Sant’Antonio di Magliano: con la benedizione di un altro pilone, più recente, dedicato a San Marco e rimesso a nuovo poco tempo fa dalle pie donne maglianesi.
Un sentiero che va, e va oltre, tra mille tentazioni visive. Da quando l’asfalto si perde nel ghiaione, in effetti, tutto è un richiamo: il foliage intenso di questo strano ottobre fatto di mascherine e temporali serali, lo skyline che trae quasi in inganno nel suo affiorare di altri campanili, piloni, quasi miraggi. Ce n’è uno, che ti frega, visto in lontananza: e per un attimo ti fa credere che hai sbagliato completamento cammino: ma la memoria recente ti ricorda che è un altro luogo consacrato al Barbera, già sotto Castellinaldo, in quella località Granera che è tra i migliori cru della Sinistra Tanaro.
Ci sei già stato: altra storia, altra emozione. E ve n’è un altro ancora, che ti ha attirato di parecchio oltre la linea di obiettivo: quello dedicato a San Carlo, perso tra le rose, curato dalla famiglia Marello. Una cartolina dentro l’altra: in una gaudia via crucis tra ciabòt, arnie lasciate lì non senza un motivo, prugneti e piante d’albicocco (sì: prodotto d’eccellenza maglianese), tutto un omaggio ad una biodiversità che qui è davvero di casa. Le fanno sponda anche le nuove costruzioni che fanno capolino a valle, con il Grande Fiume che si rivela oltre le corone di vigne quasi pronte per il sonno della potatura: case, capannoni, lontane in un costrutto che pare più lontano dei chilometri di visuale da qui a dove s’appoggiano: sai che serve l’uno e l’altro, con giudizio, per una terra che vuole crescere.
Infatti nulla è casuale, davvero, neppure il tocco umano: se pensi che qui ci vivevano, un tempo. Perché qui si incrociavano la valletta Drusiana sotto San Giuseppe di Castagnito e il “fundus Mallianus”: ciò che c’era prima della stessa Sant’Antonio, radici fortissime d’epoca romana, testimonianze che emergono forti ora, di nuovo, proprio grazie agli Amici del Castello.
Così nei Campi Sappa, più sotto nell’abitato, dove un muro sembra far sgorgare ora resti di quell’epoca: così qui. «D’altra parte -ci aveva detto Sacchetto- San Pietro sorge su un colle di antichissime memorie storiche: scassi agricoli, nel tempo, hanno riportato alla luce oggetti litici e frammenti forse risalenti al 2000 avanti Cristo».
Tanto basta per fare un ultimo sforzo: il pilone c’è, esiste, bisogna andarci. E, quando lo trovi, ci hai già preso talmente tanta confidenza in spirito da esclamare un «Eccoti qui!», pure se stai parlando da solo, in pieno bosco, tra noccioleti andati e quella costruzione in mattoni al centro di tutta questa storia.
Vorresti parlarci, a questo punto: e sai che ti risponderebbe, consapevole di tutto ciò che è accaduto su questa cresta così nascosta. Era importante, senza dubbio: dal momento che qui vi sorgevano una chiesa con diritto di sepolutura, e probabilmente un convento. “Contava”, oltre ogni apparenza: se pure l’allora potentissimo Abate di Breme, in nome di San Pietro, ne rivendicava i diritti all’altrettanto risoluto Vescovo di Asti.
Era il 1111, come ti ricordano gli scritti dello stesso Molino: anni di terra mista a sangue, di lotte sfociate nell’Astisio, antiche prove tecniche di coesione di ciò che divenne -secoli dopo- il Roero e pure la coscienza Albese. Godette, e sopravvisse a lungo, quel luogo sacro: anche quando i maglianesi decisero di spostare la loro vita più a valle, dove sorge oggi la popolosa frazione antonina.
La Messa si celebrava ancora qui nel ‘700, disponendo di tutto il necessario, come raccontano le cronache di visita pastorale di quel periodo: e si continuavano a seppellire i propri cari, prima dell’Editto Napoleonico che rese felice Ugo Foscolo e anche la grezza sanità dell’impero, portando i cimiteri fuori dai centri abitati. Altro che gel igienizzante e plexiglass.
Poi accadde ciò che accade in molte storie come questa: il decadimento, la voglia di lasciare comunque un segno sacro, la costituzione di un pilone in luogo della chiesa che fu (addirittura rubricata come “inutile” nei verbali pastorali), con le offerte dei fedeli nell’Anno Domini 1842. Nei indovini ancora i tratti, a ben vedere: l’effige della Madonna vaga come una sorta di Sindone, un dipinto di San Pietro che si fa scoprire con la traccia della chiave del paradiso in mano, e un San Rocco senza più volto, né cane al seguito, esistente solo in qualche pallida testimonianza che ora sogna di ruggire di nuova realtà.
Gli Amici del Castello Alfieri lo vogliono recuperare, in toto, questo luogo: «Affinché non corra anche il rischio di essere dimenticato e ricoperto di rovi. è necessario ripulire l’area immediatamente adiacente, controllare la situazioni dei muri e, se fosse possibile, restaurare le pitture interne». Parola dello stesso presidente Sacchetto: «Pensiamo che quest’ultimo intervento dovrebbe essere fatto da persone competenti che rispettino le regole scientifiche del restauro».
Lo faranno, c’è di che giurarlo: e magari, auspicando fausti esiti su possibili saggiature dei terreni, si potrebbe pensare anche ad una nuova veste viticola tutt’intorno come già risultava dai catasti di un tempo. Perché in fondo, nel Roero, viti e viti si rincorrono sulle trame della storia.
Paolo Destefanis