All’inizio di tutto, sai solo una cosa: che c’é, da qualche parte, lì in mezzo agli alberi. Lo sai perché te lo aveva detto Celeste Massucco da Castagnito, storico vigneron della frazione San Giuseppe: pochi anni fa, quando gli avevi chiesto i motivi attorno alla scelta di chiamare “Cavaliere della Serra” l’ottimo spumante prodotto dalla cantina di famiglia. E da lì, passando per il vino -elemento imprescindibile di questa terra, e forse anche di questa storia- si era aperto un mondo: un mondo di forma dorsale, che collega il punto in cui qui sorgeva probabilmente il “Castrum Serrae”, giungendo sino a Magliano Alfieri.
Resta una necessità, assimilabile al dovere della buona cronaca e ad una curiosità sempre più morbosa: e sì che, come in Apocalypse Now, ci si immedesima un po’ nei panni di Martin Sheen alla ricerca del Colonnello Kurtz. Solo che, al posto del fiume Nung, ci sono queste colline del Roero così rivolte al Tanaro: e si fanno altri incontri, errori, scoperte, rivelazioni, accompagnate dagli appunti che ti parlano sommessi di questo complicatissimo San Pietro.
Un sentiero che va, e va oltre, tra mille tentazioni visive. Da quando l’asfalto si perde nel ghiaione, in effetti, tutto è un richiamo: il foliage intenso di questo strano ottobre fatto di mascherine e temporali serali, lo skyline che trae quasi in inganno nel suo affiorare di altri campanili, piloni, quasi miraggi. Ce n’è uno, che ti frega, visto in lontananza: e per un attimo ti fa credere che hai sbagliato completamento cammino: ma la memoria recente ti ricorda che è un altro luogo consacrato al Barbera, già sotto Castellinaldo, in quella località Granera che è tra i migliori cru della Sinistra Tanaro.
Infatti nulla è casuale, davvero, neppure il tocco umano: se pensi che qui ci vivevano, un tempo. Perché qui si incrociavano la valletta Drusiana sotto San Giuseppe di Castagnito e il “fundus Mallianus”: ciò che c’era prima della stessa Sant’Antonio, radici fortissime d’epoca romana, testimonianze che emergono forti ora, di nuovo, proprio grazie agli Amici del Castello.
Così nei Campi Sappa, più sotto nell’abitato, dove un muro sembra far sgorgare ora resti di quell’epoca: così qui. «D’altra parte -ci aveva detto Sacchetto- San Pietro sorge su un colle di antichissime memorie storiche: scassi agricoli, nel tempo, hanno riportato alla luce oggetti litici e frammenti forse risalenti al 2000 avanti Cristo».
Vorresti parlarci, a questo punto: e sai che ti risponderebbe, consapevole di tutto ciò che è accaduto su questa cresta così nascosta. Era importante, senza dubbio: dal momento che qui vi sorgevano una chiesa con diritto di sepolutura, e probabilmente un convento. “Contava”, oltre ogni apparenza: se pure l’allora potentissimo Abate di Breme, in nome di San Pietro, ne rivendicava i diritti all’altrettanto risoluto Vescovo di Asti.
Era il 1111, come ti ricordano gli scritti dello stesso Molino: anni di terra mista a sangue, di lotte sfociate nell’Astisio, antiche prove tecniche di coesione di ciò che divenne -secoli dopo- il Roero e pure la coscienza Albese. Godette, e sopravvisse a lungo, quel luogo sacro: anche quando i maglianesi decisero di spostare la loro vita più a valle, dove sorge oggi la popolosa frazione antonina.
Poi accadde ciò che accade in molte storie come questa: il decadimento, la voglia di lasciare comunque un segno sacro, la costituzione di un pilone in luogo della chiesa che fu (addirittura rubricata come “inutile” nei verbali pastorali), con le offerte dei fedeli nell’Anno Domini 1842. Nei indovini ancora i tratti, a ben vedere: l’effige della Madonna vaga come una sorta di Sindone, un dipinto di San Pietro che si fa scoprire con la traccia della chiave del paradiso in mano, e un San Rocco senza più volto, né cane al seguito, esistente solo in qualche pallida testimonianza che ora sogna di ruggire di nuova realtà.
Gli Amici del Castello Alfieri lo vogliono recuperare, in toto, questo luogo: «Affinché non corra anche il rischio di essere dimenticato e ricoperto di rovi. è necessario ripulire l’area immediatamente adiacente, controllare la situazioni dei muri e, se fosse possibile, restaurare le pitture interne». Parola dello stesso presidente Sacchetto: «Pensiamo che quest’ultimo intervento dovrebbe essere fatto da persone competenti che rispettino le regole scientifiche del restauro».
Lo faranno, c’è di che giurarlo: e magari, auspicando fausti esiti su possibili saggiature dei terreni, si potrebbe pensare anche ad una nuova veste viticola tutt’intorno come già risultava dai catasti di un tempo. Perché in fondo, nel Roero, viti e viti si rincorrono sulle trame della storia.
Paolo Destefanis