Giorgio aveva 25 anni, Toni 15. Si amavano e per le famiglie era un’onta, una vergogna da cancellare con il sangue. Li trovarono sotto un pino in un campo isolato, mano nella mano, i visi macchiati di sangue e il foro di un proiettile sulla fronte. Tentarono di farlo passare come suicidio, il nipote tredicenne di Toni confessò il delitto dicendo che i due l’avevano obbligato a sparare, poi ritrattò e non ci fu colpevole. O forse ce ne furono mille. Quelli che in paese li chiamavano “ziti” con tono spregiativo, quelli che li bullizzavano ed emarginavano, quelli che affollarono il funerale di Toni ma lasciarono un vuoto attorno alla bara di Giorgio, ché lui era gay dichiarato, “puppo cu buddu”, quelli che anche dentro la porta di casa punivano il legame con umiliazioni e maltrattamenti. Successe a Giarre, in Sicilia, 40 anni fa. La ricorrenza è caduta il 31 ottobre. Troviamo giusto ricordare quei ragazzi e i passi compiuti attraverso il loro sacrificio per l’accettazione dell’amore in ogni sua forma. La vicenda, all’epoca, valicò i confini di una terra pure omertosa per non essere associata a un caso di omosessualità e ispirò diverse manifestazioni di protesta, rivendicazioni di libertà d’amare, ma anche Giarre mostrò un altro volto, comprensivo e indignato, scendendo in strada con associazioni e circoli, semplici cittadini. Toni e Giorgio diedero coraggio all’Italia, svegliarono le coscienze, alzarono un velo sul dolore e sulla solitudine degli omosessuali.
Quarant’anni dopo, molte cose sono cambiate. Lo testimoniano Massimo e Gino, due cuori e una capanna nel cuore di Palermo, che in quel 1980 manifestarono come tanti altri ragazzi e fondarono il primo Arcigay d’Italia e che il 31 ottobre, nel giorno in cui Giorgio e Toni pagarono l’amore con la vita, hanno scelto simbolicamente Giarre per unirsi civilmente. Una cerimonia inedita nella cittadina siciliana, significativa, che segue quella simbolica, di protesta, che i due vollero nel ’93. Hanno scelto di sposarsi dopo aver avuto paura di essere separati dal destino perché Gino è stato molto male, hanno deciso che la guarigione imponeva una festa e il coronamento di un amore lungo e forte, e che il matrimonio, viste le loro battaglie, non poteva essere privo d’un significato politico e sociale. Giarre è una riappacificazione, un messaggio, un gesto d’amore accolto dopo quello spezzato dai colpi di pistola, è un sorriso oltre il pregiudizio, è un grido di libertà non più nelle piazze ma nel teatro che il comune ha messo a disposizione. Tante cose sono cambiate, e vorremmo fermarci qui. Ma negli stessi giorni abbiamo visto il video “social” in cui Camilla, giovane operatrice socio-sanitaria genovese, si sfoga mostrando in lacrime la sua auto danneggiata: «Quando sei lesbica, in Italia, si comportano così i tuoi vicini di casa omofobi. Ti tolgono lo specchietto e ti bucano quattro gomme della macchina. Io mi sento chiamare ogni giorno put***a e pervertita, adesso sono arrivati a danneggiarmi macchina con cui vado tutti i giorni a lavorare. Io, come ogni cristiano, mi alzo la mattina, vado a lavorare e pago il mutuo. Ho 23 anni e lo pago da tre, non so in quanti alla mia età lo facciano». Camilla chiede una mano, chiede un mondo senza pregiudizi, ricordandoci che tanti passi sono stati fatti ma tanti restano da fare. Ci perdonerà, se per chiudere, le rubiamo parole dolcissime: «Quello che voglio è solo vivere in pace, serena, e che tutte le persone possano girare mano nella mano».