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«Con le parole aziono sirene di allarme»

“Post ai posteri”: il nuovo libro di Silvio Saffirio. Una lucida analisi dissacrante e mai cinica

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Il rischio c’è, inutile negarlo. Iniziare a parlare di Silvio Saffirio citando uno spot tra i più memorabili della storia della comunicazione pubblicitaria italiana, realizzato dall’agenzia di cui è tra i fondatori, conduce a lambire la banalità. Ma è un pericolo che va corso, perché la “réclame” di inizio millennio di Fiat Doblò, con i giamaicani che si allenano per un’improbabile partecipazione alle olimpiadi invernali, è funzionale a e­sem­­plificare non co­sa ha fat­to Silvio Saffirio, ma cosa è. Serve il ge­nio, certo: l’i­dea che ti fa partire u­na spanna da­van­ti agli altri, ma poi occorre mettere tutti i tasselli al proprio posto, come, nel caso in questione, la musica e lo slogan che chiude lo spot, tra le altre cose. Saffirio dimostra di esser questo: uno che cura i dettagli, disponendoli in modo tale da dare la sensazione che la mi­glior combinazione non po­tesse che essere quella. Sa che è im­possibile non lasciare qualcosa al caso, ma fa in modo che le sue parole affrontino la fatalità del destino a cui andranno incontro protette dal loro essere necessarie.
Lo conferma il suo ultimo libro, che raccoglie “meditazioni, provocazioni e perorazioni di uno scettico della modernità”.

Saffirio, “Post ai posteri” era il sottotitolo del suo libro precedente, “Graf­fi”. Va considerato come una sua continuazione?

«Direi di sì. “Post ai posteri” conclude una mia personale trilogia iniziata con “Galaverna” dove ho cercato di narrare con la libertà e l’energia del linguaggio poetico quello che io chiamo “il mondo antico” ovvero il medioevo arrivato a lambire l’infanzia della mia generazione, ambientando gran parte delle narrazioni nella Langa, una Lan­ga dopo Pavese e prima del “boom”. Con “Graffi” ho lanciato invece sferzate ai contemporanei, ignari del loro passato anche recente, usando il linguaggio svelto e sintetico dei post. Con “Post ai posteri” aziono sirene di allarme e razzi di segnalazione, lancio perorazioni e qualche lascito morale».

Da un creativo come lei c’era da aspettarsi un risvolto di copertina senza una sinossi del libro. L’autointervista che la sostituisce si chiude con la domanda: “Perché ha destinato questo libro ai posteri?” A cui lei ri­sponde: “Perché non li conosco”. Un atto di sfiducia nei confronti dei contemporanei o un’a­pertura di credito verso chi verrà dopo?
«In genere più che ai fratelli o ai figli è ai nipoti che si lasciano ammaestramenti e talvolta perfino patrimoni. Loro sono la speranza, i nostri contemporanei hanno invece già chiaramente mostrato i loro limiti. Sono dei vinti, salvo eccezioni».

Da cosa parte per i suoi post?

«Nascono sia dalle riflessioni che dai pensieri fugaci. Parto da un punto e poi mi lascio andare. L’impianto rimane quello originario, ma a volte li elaboro anche una dozzina di volte, cercando sempre di conservare l’originaria freschezza».

Parliamo del brano su Andrea Pirlo, in cui c’è un passaggio che è una vera e propria perla: “Una palla che stava per arrivargli era una poesia un istante prima di essere scritta”…

«Il brano su Pirlo merita una puntualizzazione: è stato scritto prima che divenisse allenatore. La sua carriera di calciatore, a quella mi riferisco nel libro, è immutabile perché conclusa e direi che possiamo considerarla esemplare. Tuttavia, non ho molti dubbi che Pirlo rimarrà se stesso anche da allenatore, me­stiere più complicato e politico. Gli augurerei di diventare il Clint Eastwood di quel mondo un po’ balordo e molto intossicato. Quanto a quella che lei generosamente definisce “per­la” è frutto della rincorsa, dell’abbrivio della scrittura».

Un tratto comune tra i suoi post è la lucidità con cui sono scritti, che le permette di essere spesso illuminante, sovente dissacrante, ma mai cinico e forse nemmeno sarcastico. Che ne pensa?
«Vorrei crederci perché mi renderebbe felice. Esprimermi con chiarezza e non offendere le sensibilità personali è sempre stato per me un traguardo. Non facile da conquistare ogni volta. Ma ho avuto buoni maestri e ricevuto severe lezioni».

I post già apparsi su Facebook sono riportati quasi sempre sul libro senza una virgola modificata, proprio perché già di per sé inappuntabili. Mai una parola fuori posto, mai una parola sopra le righe, senza per questo risparmiare commenti anche taglienti. Come ci riesce?
«Non mi costa fatica; semmai mi costerebbe tollerarmi errori o parole approssimative. È la disciplina che si forma nell’esperienza del lavoro. C’è sta­to un tempo che i pubblicitari e­rano colti: non parlo di me, ma di Pasquale Bar­bella, autore della prefazione, Emanuele Pi­rella (“O così o Pomì”), Marco Mignani (“Mi­lano da bere”), Franco Moretti (qualcuno ricorda “O no” di Chi­namartini?), scusandomi per i molti altri che non ho spazio per citare».

Scrivere un post ca­pace di raccogliere commenti e “mi pia­ce” sottostà alle stes­se dinamiche del costruire un’inserzione pubblicitaria che funziona?
«In un certo sen­so sì. Occorre agganciare con l’approccio, rassicurare con la brevità, creare coinvolgimento, mantenere alta la curiosità, e ogni tre righe riuscire a far sorridere ri­lanciando l’interesse».

Che rapporti ha con i social e con chi li frequenta?

«Mi limito a Facebook e a qualche incursione su Instagram. Pubblico pensieri ma anche foto, quasi mai immagini private. Circa i frequentatori, penso che ciascuno di noi ha il Face­book che merita, nel senso che lentamente lo si costruisce a pro­pria misura, senza dover neppure selezionare i propri contatti. Se quello che scrivi non interessa, gli estranei al tuo mondo di interessi se ne an­dranno silenziosamente e altri ne arriveranno di più appropriati. A differenza del libro dove raramente sai chi ti legge, qui sono con il loro nome e il loro volto e pur non intrattenendo corrispondenze private qualcosa ti lega a loro».

Se dovesse rac­contare ai posteri l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo che titolo avrebbe il post in questione e come racconterebbe questi mesi?
«Ho scritto per il mio editore Yume un capitolo di un e-book pubblicato nelle settimane del primo “lockdown” dal titolo “Andrà tutto bene”. Sostenevo che l’autore della frase non era certamente piemontese… I piemontesi sanno ancestralmente che non bisogna proclamare certezze neanche quando si è ragionevolmente sicuri. Non è bene, è la “Hy­bris” degli antichi, la tracotanza, il peccato di presunzione del­la nostra onnipotenza. Stiamo ben vedendo quan­to questa pandemia stia sradicando i convincimenti di un’umanità che si era illusa di dominare ogni fenomeno. Io avevo appreso della “spagnola” dai miei nonni e dai miei genitori ma ai ragazzi di oggi e ai loro genitori nessuno aveva invece detto niente».

In un certo senso lei è già un “postero”: la pandemia ha fatto sì che tanti ora aspirino a una dimensione più bucolica che la sua Bosia rappresenta appieno.

«Il mio sogno sarebbe di vedere abitate di nuovo queste bellissime valli. Abitate da una popolazione formata sì da agricoltori, allevatori, vignaioli ma an­che da coppie “di città” che vi­vano di lavori contemporanei, recuperino il patrimonio edilizio sfruttando le agevolazioni che già esistono e contribuiscano alla creazione di un nuovo clima culturale. E ag­giungo: che facciano molti figli».